Categoria: educazione

La risonanza emotiva

Il nostro cervello è predisposto per interagire con quello degli altri. I neuroni specchio e il meccanismo dell’empatia sono due prove forti a sostegno di questa convinzione. Questo vale anche per il clima sociale: le nostre emozioni e i nostri sentimenti interagiscono con quelli degli altri.

Nel nostro cervello si trovano alcuni neuroni molto particolari, i neuroni specchio. Tutti noi possediamo un intero sistema di neuroni specchio. Quando vediamo una persona che parla, il sistema specchio attiva nel nostro cervello le aree legate al linguaggio. Allo stesso modo, quando vediamo una persona che muove una mano, il sistema specchio attiva nel nostro cervello le aree legate alla motricità.
Ma i neuroni specchio non si limitano a replicare le azioni fisiche: sono alla base della cognizione sociale, dei nostri pensieri sugli altri e delle nostre interazioni con la comunità. Ad esempio, recentemente è stato dimostrato che il sistema dei neuroni specchio non riconosce esclusivamente le azioni altrui, ma anche le loro intenzioni (ovvero ciò che ha causato quelle azioni).
Probabilmente, anche l’empatia, ovvero la capacità di comprendere gli stati d’animo altrui è attivata da un meccanismo simile.

I gruppi sono incubatori emotivi. Ogni interazione sociale crea emozione. In un gruppo, ci sono molte emozioni e ognuna di esse può generare una spirale positiva o negativa. Le emozioni possono generare frustrazione o anche aumentare la collaborazione, incentivando la volontà di ascoltare e condividere le migliori idee.

Tendenzialmente, i membri di un gruppo possono modellare le loro emozioni sulla base del sentiment di gruppo per integrarsi meglio o socializzare, favorendo la coesione nel gruppo. È tuttavia importante distinguere (Kelman, 1961) tra:

  • il concetto di adattamento per imitazione (o “imitative compliance”)
  • il concetto di impegno interiorizzato (o “internalization of emotional commitment”)

Nel primo caso abbiamo un mero adeguamento al fine di sembrare conformi al gruppo; nel secondo caso, si tratta di una vera identificazione nei valori del gruppo. Per ottenere del vero impegno (commitment), occorre che il gruppo incoraggi i suoi membri a mostrare ciò che provano, al fine di creare uno stile emozionale comune che sia in grado di agire nel profondo.

PER EDUCARE CON LE FAVOLE:

Per aiutare i più piccoli a riconoscere le emozioni e a coltivare le buone pratiche che ci fanno stare meglio abbiamo scritto la raccolta di racconti “Cuorfolletto e i suoi amici”.

libri cuorfolletto e i suoi amici

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Empatia

Cosa significa empatia? L’empatia viene definita dalla psicologia come “la capacità di percepire le emozioni, i sentimenti e gli stati d’animo altrui”. Questa comprensione è intuitiva: le persone empatiche non hanno bisogno di troppe spiegazioni; sono in grado di percepire quasi istintivamente le emozioni degli altri.
L’empatia viene spesso indicata come uno degli aspetti dell’intelligenza emotiva. Nel primo studio sull’intelligenza emotiva (condotto nel 1990 da Peter Salovey e John Meyer), ad esempio, è annoverata tra le cinque componenti dell’intelligenza emotiva. Secondo le scienze del carattere (e in particolare secondo la classificazione del VIA Institute), l’empatia confluisce in una delle 24 forze caratteriali: l’intelligenza sociale, ovvero la capacità di comprendere i pensieri e le emozioni degli altri.

La manifestazione delle proprie emozioni varia da cultura a cultura e questo rende l’empatia particolarmente preziosa. Nel mondo occidentale è abbastanza fisiologico mostrare entusiasmo per un successo, sorridere, cercare un contatto fisico come rinforzo positivo, quale ad esempio una stretta di mano. Nel mondo orientale tutto ciò va contenuto, controllato, perché l’autodisciplina è un fattore importante nella relazione con gli altri. Persino all’interno della stessa cultura o di una stessa famiglia, le persone sentono le emozioni con una diversa intensità.

SIGNIFICATO ED ETIMOLOGIA DEL TERMINE EMPATIA

Empatia deriva dal greco antico “en” (che significa dentro) e “pathein” (che significa sentire). Letteralmente il termine empatia significa “sentire dentro”, che indica la nostra comunione con gli altri, al punto di sentire ciò che si muove dentro i loro cuori.
Il termine empatia è piuttosto recente, ed è stato coniato dagli psicologi del XIX secolo. Tuttavia, la capacità di percepire le emozioni degli altri e di costruire un legame emotivo è molto, molto più antica!

L’empatia nei confronti di un’altra persona ha molteplici sfaccettature. Significa entrare nell’intimo mondo della percezione altrui e farlo diventare la nostra casa. Significa essere sensibili, momento dopo momento, al cambiamento, sentendo il flusso delle emozioni dell’altra persona. (…) Significa vivere temporaneamente nel mondo percettivo dell’altro e muoversi in esso delicatamente, senza dare giudizi. Significa dare senso a ciò per cui l’altro fatica a trovare consapevolezza, senza cercare di far emergere troppo esplicitamente le emozioni di cui non è ancora pienamente consapevole, per non spaventarlo. Significa comunicare all’altro il senso che diamo al mondo, offrendo il nostro punto di vista pieno di nuovi significati, ispiranti per l’altro. Voi siete dei fidati compagni dell’altro, nel viaggio che compie attraverso il suo mondo interiore. Aiutando ad affrontare il senso dell’esperienza, potete aiutare gli altri a dare un significato alle proprie emozioni. In questo modo l’altra persona può vivere più prodondamente i significati e tradurli in esperienza”. (C. Rogers, 1957)

Ecco un breve video introduttivo sull’empatia:

“La civiltà dell’empatia è alle porte. Stiamo rapidamente estendendo il nostro abbraccio empatico all’intera umanità e a tutte le forme di vita che abitano il pianeta. Ma la nostra corsa verso una connessione empatica universale è anche una corsa contro un rullo compressore entropico in progressiva accelerazione, sotto forma di cambiamento climatico e proliferazione delle armi di distruzione di massa. Riusciremo ad acquisire una coscienza biosferica e un’empatia globale in tempo utile per evitare il collasso planetario?”
J. Rifkin

Oggi il termine empatia è usato di frequente sulla stampa e sul web, alla stregua di una moda stagionale. E’ come se tutto d’un colpo si fosse scoperta la necessità di accostarsi all’altro, di mettersi nei suoi panni. Perché questo bisogno? Non dovrebbe essere qualcosa di assolutamente naturale?

In un mondo che va molto di fretta, probabilmente no. Ecco, allora, l’esigenza non solo di riscoprire un concetto, di approfondirlo, ma anche di farlo nostro, tornando a sentire. Del resto, non è un tema esclusivo della modernità: ne parlavano già nell’Ottocento gli autori romantici tedeschi, come ad esempio Herder e Novalis, descrivendo l’esperienza di fusione dell’anima con la natura.

Nel 1906 è il filosofo e psicologo tedesco Theodor Lipps, con il saggio “Empatia e godimento estetico”, a definire questa funzione psicologica, fondamentale per l’esperienza estetica: empatia è la percezione delle proprie energie, forze vitali, ricongiungimento dell’individuo con l’universo. Lo spunto più interessante, che poi è forse il motivo per cui oggi si parla tanto di empatia, viene da un’idea dello psicologo americano R.H. Woodworth.
Lo studioso sottolinea come l’osservatore tenda ad identificarsi con una parte di ciò che vede, restandone emozionalmente coinvolto.

Guardando un tempio greco, veniamo colpiti dalle cariatidi, immedesimandoci nell’atto, letterale o metaforico, di sopportare il peso sovrastante. Ma si tratta pur sempre di una parte, non del tutto. Ecco perché, forse, oggi parliamo tanto di empatia. Nella frenesia, nell’apatia del quotidiano, abbiamo un bisogno lancinante di emozioni e, contemporaneamente, sperimentiamo la paura di esserne travolti. Cosa che, a volte, ci fa circoscrivere ciò che sentiamo, distorcendolo o, a volte, negandolo, come accade con l’analfabetismo affettivo, di cui abbiamo parlato in un approfondimento correlato.

Empatia significa sentire l’altro ma, per farlo, è necessario prima sentire noi stessi, nella nostra complessità. Avere occhi più grandi e cuore più aperto, per vedere quel tutto che spesso riduciamo volontariamente ad una parte, ad un pilastro dell’edificio. L’empatia permette di avere una panoramica sull’intero edificio e sul paesaggio che lo circonda.

L’empatia rappresenta lo strumento per leggere le emozioni altrui. Come “animale sociale”, l’uomo ha bisogno di confrontarsi con l’altro, di relazionarsi con chi gli sta intorno. Per farlo, non serve solo quella che viene definita capacità di mentalizzazione (o anche teoria della mente).

La teoria della mente è una caratteristica tipica dell’uomo e serve a comprendere gli stati mentali e affettivi dell’altro, senza esserne davvero partecipi. L’empatia porta oltre questo concetto, permettendo la valorizzazione dei sentimenti: insegna a capire la persona nella nella situazione in cui si trova, anche se noi, nella stessa circostanza, la penseremmo in modo diverso. In questo senso, essa rappresenta contemporaneamente una competenza emotiva (una componente fondamentale dell’intelligenza emotiva) ed un’abilità sociale.

L’assenza di empatia produce effetti nefasti: isolamento, infelicità, incapacità di coltivare relazioni virtuose e durature. In altre parole, se manca l’empatia siamo in presenza di analfabetismo emotivo.

Dell’empatia gli studiosi, Freud e Kohut in primis, hanno evidenziato inizialmente la componente emotiva ed affettiva. Successivamente, negli Anni Trenta del secolo scorso, Mead ha focalizzato l’attenzione sulla componente cognitiva dell’empatia, concetto poi ripreso ed ampliato dalle teorie dei neuroni a specchio. In particolare è Gallese, tra gli studiosi italiani scopritori dei neuroni specchio, a spiegare che, per percepire un’azione, bisogna simularla internamente, con un meccanismo di modellizzazione prelinguistico ed automatico.

Ecco un piccolo identikit della persona empatica (sulla base della definizione di Choi-Kain e Gunderson, le persone empatiche hanno tre caratteristiche, riscontrabili nelle diverse teorie in materia):

  • sono capaci di una reazione emotiva di condivisione dello stato d’animo altrui
  • riescono, attraverso le loro capacità cognitive, ad immaginare la prospettiva altrui
  • mantengono stabilmente la distinzione sé-altro

Spendiamo due parole sull’ultimo punto. L’empatia porta sicuramente vantaggi nella vita sociale: favorisce la comunicazione ed anche il problem solving. Bisogna però non incappare nell’estremo opposto, il rischio di empatizzare eccessivamente.

In questo è necessario allenarsi: se da un lato mettersi nei panni dell’altro serve a capire ed anche aiutare, non dobbiamo mai dimenticare di non scollegarci dal nostro io più profondo. Sentire troppo significa farsi travolgere. Al contrario, per sentire bene, dobbiamo prenderci innanzitutto cura di noi stessi.

E TU, SEI EMPATICA/O?

Per misurare la tua empatia, prova con sincerità a rispondere a queste domande, facendo riferimento ad esperienze vissute e a come ti sei comportata/o. E’ un piccolo test per capire come lavorare su di te, prima ancora che insieme ai tuoi bambini:

  • Sai ascoltare e comprendere i sentimenti degli altri , sospendendo la tua valutazione?
  • Sei in grado di consolare con un abbraccio, senza limitarti alle parole?
  • Sai sdrammatizzare, anche usando l’ironia?

Ricordati sempre che, come tutte le componenti dell’intelligenza emotiva, anche l’empatia può (e deve) essere allenata, a prescindere dalla dotazione emotiva di ciascuno. Di seguito una serie di piccoli esercizi da sperimentare su te stessa/o e da riproporre in famiglia.

MINI KIT DI ALLENAMENTO PER L’EMPATIA

Scendiamo dal piedistallo: non sono solo i nostri problemi ad essere importanti.
Pesiamo le parole: feriscono a volte più di una spada … Mai scordarsi il “grazie”.
Non dimentichiamo di sorridere alla vita: è gratis e fa bene!

EMPATIA IN FAMIGLIA

L’empatia è un membro della famiglia, facciamola entrare nelle nostre case. Come? Con piccoli gesti quotidiani:

  • Sorriso: siamo ciò che le nostre azioni dicono di noi, le intenzioni sono solo decorazioni. Per cui affrontiamo la vita pensando positivo e con un bel sorriso per i nostri bimbi
  • Comunicazione: parlare e comunicare sono due concetti completamente differenti, bisogna imparare il linguaggio del cuore
  • Ascolto: per ascoltare ci vuole innanzitutto disponibilità verso l’altro, chiunque egli sia e di qualunque problema voglia parlarci
  • Gratitudine: le parole sono importanti, anche da piccoli. E’ fondamentale insegnare le norme di cortesia: educare al rispetto significa educare all’amore.

PER EDUCARE CON LE FAVOLE:

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BIBLIOGRAFIA
“Emotional Intelligence” (Salovey P. e Meyer J., Emotional Intelligence, Baywood, 1990)
https://www.viacharacter.org/character-strengths/social-intelligence

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Il potere del “non ancora”

Come affrontare le difficoltà? Capita – ed è naturale – che i bambini non riescano a fare qualcosa che vorrebbero; del resto accade anche a noi adulti. Come dovremmo comportarci per evitare di scoraggiare i più piccoli senza ingannarli?

La prospettiva del “non ancora”

In una scuola, gli insegnanti hanno deciso di smettere di utilizzare i voti negativi, per non demoralizzare gli studenti. Naturalmente, c’era bisogno di trovare un espediente per tutti quei casi in cui i ragazzi erano oggettivamente insufficienti nel campo da valutare. Gli insegnanti hanno deciso di introdurre una valutazione not yet, “non ancora”: non sei ancora capace di svolgere queste moltiplicazioni, ma presto lo sarai. L’importante è allenarti e non arrenderti.


Di fronte ad un bambino che dica “non ce la faccio”, proviamo ad aiutarlo dicendogli: “non ce la fai ancora”. Quel “non ancora” è fondamentale: sono due parole, ma racchiudono un concetto potente: puoi farcela, ma prima devi crescere e lavorarci. Sono due parole che fanno la differenza, perché proiettano la sfida nel futuro, sostituendo allo sconforto un obiettivo, una mappa di lavoro.
Ecco un esempio: “Non sono capace di vestirmi da sola/o”.
“Non sei ancora capace di farlo, ma presto lo farai. Per cominciare, potresti imparare ad infilare la maglietta”.
Questa prospettiva è stata introdotta dagli studiosi americani della mentalità di crescita (in particolare dalla professoressa Carol Dweck), per aiutare i bambini a non scoraggiarsi e a migliorarsi costantemente, in un percorso di crescita e autoeducazione continua.

Educare al “non ancora” nella pratica
Una semplice attività pratica che possiamo implementare per portare lo spirito del “non ancora” nella vita quotidiana dei nostri bambini è la realizzazione di un cartellone delle cose che non siamo ancora in grado di fare. Dopo aver decorato e incorniciato a piacere il cartellone (per cominciare si può utilizzare un semplice foglio bianco di carta A4) chiediamo ai bambini di scrivere su di esso tutte le cose che vorrebbero fare e che non sono ancora in grado di fare. Mettiamole nero su bianco, poi soffermiamoci un attimo a riflettere insieme a loro sul tempo che potrebbe volerci per acquisire quelle abilità. Se lo desiderano, mettiamo a punto una mappa di lavoro, una “road map” dei passaggi intermedi necessari per riuscire.
Accanto al cartellone del “non ancora”, realizziamo anche un cartellone dei traguardi raggiunti: lì inseriremo tutte le abilità che i bambini hanno acquisito nel corso del tempo. Questo cartellone ha un grande potere motivazionale: dimostra che nessun ostacolo è insormontabile!

PER EDUCARE CON LE FAVOLE:

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A cosa servono le emozioni positive?

Perché le emozioni positive sono utili? Le emozioni negative, per farti un esempio, predispongono il corpo ad una certa reazione: la rabbia ci spinge ad attaccare un avversario, la paura a fuggire, il disgusto a evitare il contatto con determinati cibi o sostanze. Si tratta di emozioni che hanno la funzione di salvarci la vita da potenziali pericoli. E le emozioni positive? La gioia, l’orgoglio e l’amore non generano comportamenti in modo altrettanto marcato. Proprio quest’assenza di comportamenti ha costituito per anni un ostacolo difficile per i ricercatori che affrontavano il tema delle emozioni positive.

La broaden-and-build theory sulle emozioni positive
Barbara Fredrickson, dopo una serie di controlli sperimentali rigorosi, ha proposto una teoria alternativa, conosciuta come broaden-and-build theory (teoria dell’ampliamento-costruzione). Secondo la teoria della Fredrickson, le emozioni positive non hanno il compito di generare un determinato comportamento. Al contrario, predispongono la mente all’apprendimento, la rendono molto più ricettiva agli stimoli. Le emozioni positive costruiscono un bagaglio di risorse intellettuali, sociali, psicologiche e fisiche che rimarranno a disposizione dell’individuo. Una persona che prova uno stato emotivo positivo, è naturalmente portata ad approfondire e apprendere, costruendo conoscenza e abilità; questo è quanto è emerso dalle ricerche condotte in laboratorio.
Questa teoria, inoltre, contestualizza la natura rapida e transitoria delle emozioni positive: nessuno di noi può vivere in uno stato perenne di gioia, di orgoglio o di gratitudine. Proprio come le emozioni negative, anche quelle negative sono transitorie. Tuttavia, durante il loro breve ciclo vitale, queste emozioni permettono di costruire risorse che permetteranno, anche dopo la loro scomparsa, di vivere con maggior soddisfazione la propria vita.

Le applicazioni pratiche della teoria
La teoria della Fredrickson è fondamentale per il mondo dell’educazione e della scuola: infatti, ci offre la possibilità di rendere più efficaci i nostri programmi educativi attraverso la ricerca di un ambiente capace di generare emozioni positive (ambiente di apprendimento positivo).
Alcuni studiosi si sono concentrati sulle pratiche utili per generare emozioni positive; quella che ha ottenuto il maggiore riscontro scientifico è il cosiddetto reliving, ovvero la rievocazione di un momento in cui abbiamo sperimentato delle emozioni positive. Un esercizio efficace è la scrittura di un ricordo: scrivere a proposito di un momento in cui abbiamo sperimentato delle emozioni positive intense e uno stato di profondo benessere ci permette di rievocare quelle sensazioni, quelle emozioni. Bastano poche righe; l’importante, è che l’esercizio sia svolto con autenticità, cercando di rievocare il ricordo in modo vivido. In questo modo, ci predisporremo ad imparare di più e meglio, a migliorare le nostre relazioni e ad entrare in una modalità decisamente più ricettiva.

Laboratori educativi

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BIBLIOGRAFIA
Fredrickson, B. L. (2004). “The broaden-and-build theory of positive emotions”. Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences. 359

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Le tre strade dell’apprendimento

Cosa significa imparare? Cos’è l’apprendimento? Questa domanda rappresenta un banco di prova per tutti coloro che desiderano educare. Se non siamo capaci di apprendere e di far apprendere, l’educazione è vana. L’apprendimento è un processo che presenta una struttura tripartita. Esistono, in altre parole, tre forme di apprendimento:

  • l’apprendimento cognitivo, che è apprendimento di concetti e proposizioni (come la gran parte delle conoscenze scolastiche);
  • l’apprendimento emotivo, che è apprendimento ed elaborazione dei sentimenti;
  • l’apprendimento psicomotorio, che è apprendimento di abilità.

Tutte e tre queste forme di apprendimento hanno il potere di modificare la nostra struttura cognitiva, di “aggiornare” la nostra mente creando nuovi collegamenti e nuovi percorsi. Tuttavia, non procedono seguendo tre strade separate. Le tre forme di apprendimento interagiscono tra loro, prima e durante il lavoro sul sistema cognitivo.

Il processo di apprendimento si può schematizzare così:

apprendimento
Clicca sulla mappa per ingrandirla.

Come puoi vedere, esistono due tipi di apprendimento:

  • apprendimento meccanico;
  • apprendimento significativo.

L’apprendimento meccanico è quello tipico dello “studio a memoria” fine a se stesso: la mente immagazzina informazioni nella memoria a breve termine ma, per ragioni di economia, non integra le nuove informazioni con quelle di cui già dispone. L’apprendimento meccanico è effimero: si tramuta presto in oblio, come sanno bene gli studenti.

L’apprendimento significativo, al contrario, prevede l’integrazione di ciò che si apprende all’interno della struttura cognitiva, modificando in profondità i legami tra concetti, sentimenti e abilità. Questo apprendimento è un apprendimento durevole.

LABORATORI DI EDUCAZIONE CREATIVA©

APPROFONDIMENTI

  • Abbiamo trattato in dettaglio la teoria dell’apprendimento significativo di J. Novak nell’articolo “Apprendimento meccanico o apprendimento significativo?“. Questi appunti sull’apprendimento sono condizionati fortemente da questa teoria scientifica, che a nostro avviso rappresenta un’eccellente teoria dell’apprendimento.
  • La struttura tripartita dell’apprendimento evidenzia bene l’importanza del movimento come fattore in grado di sostenere e potenziare l’apprendimento cognitivo. Quest’idea (che era già stata teorizzata da Maria Montessori) è stata esplorata da numerosi scienziati che hanno trovato un forte legame tra movimento e apprendimento.
  • L’apprendimento psicomotorio non è limitato agli esercizi ginnici o alle abilità professionali (lavorare il legno o la pietra, saldare i metalli etc.). Un esempio particolarmente interessante di attività che integra delle forme di apprendimento psicomotorio e che facilita tutti gli altri apprendimenti è la mindfulness.

FONTI

  • D. Ausubel, The Psychology of Meaningful Verbal Learning, Grune & Stratton, 1963
  • J. Novak, Costruire mappe concettuali, Erickson, 2010

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Il ruolo delle emozioni nell’apprendimento

Oggi riflettiamo sul ruolo delle emozioni nell’apprendimento. Le ricerche, infatti, evidenziano che insegnare col sorriso rende l’apprendimento più piacevole ma soprattutto più efficace. Può sembrare scontato, ma imparare a conoscere meglio questo fenomeno può aiutarci a prevenire l’effetto opposto, il “cortocircuito emotivo”.

Qualcuno avrà già sentito parlare di warm cognition Si tratta di un concetto che Daniela Lucangeli, Professoressa di Psicologia dello Sviluppo dell’Università di Padova e ricercatrice attiva nel campo dell’apprendimento e dei bisogni educativi speciali, da tempo propone agli insegnanti come linea guida fondamentale per la scuola.

La Prof. Sa Lucangeli, nel corso delle sue ricerche, ha evidenziato come l’apprendimento caldo (warm cognition) sia essenziale per poter apprendere bene. Ma cosa significa “apprendimento caldo” (o anche insegnamento gentile)? Semplicemente, quell’apprendimento che passa attraverso un ambiente emotivamente positivo, legato appunto ad emozioni calde come la gioia.

Quando impariamo qualcosa, nella nostra mente fissiamo anche il contesto emotivo in cui l’abbiamo imparata. Dunque, ciò che si impara in un clima positivo verrà ricordato con gioia; al contrario, se l’apprendimento è legato ad uno stato ansioso (o peggio ancora ad uno stato di collera o panico), queste emozioni negative accompagneranno ogni tentativo di ricordare quell’informazione.

Quindi: ricordiamoci di insegnare sempre col sorriso! Non importa che si parli di radici quadrate, sillabe o come allacciarsi le scarpe. Se insegniamo col sorriso e cerchiamo di mettere a loro agio gli studenti (anche “informali”, come nel caso dei mille insegnamenti che hanno luogo in famiglia) otterremo un risultato più duraturo ma soprattutto più virtuoso.

Per riuscirci, dobbiamo anche lavorare sul nostro modo di porre una critica: non dobbiamo ridurci a chinare il capo e a lasciar correre; al contrario, la critica è fondamentale. Quello che conta, però, è riuscire a muoverla senza sminuire la persona, stimolandola piuttosto a fare diversamente. In altre parole, dobbiamo riuscire a far sì che il nostro intervento correttivo sia vissuto come uno stimolo a far meglio e non come una mortificazione.

LA SFIDA DELL’APPRENDIMENTO 2.0? LA CONSAPEVOLEZZA

Leggiamo quotidianamente nuove ricerche che potrebbero (e dovrebbero) indirizzare le nostre azioni di genitori, insegnanti e educatori. Spesso, però, non riusciamo a tradurle in qualcosa di concreto.

Perché? Semplicemente, la ricerca è un’operazione teorica, utile ad analizzare un problema ma non ad aiutare chi poi dovrebbe implementarla. Ovvero: se una ricerca ci dice che non dobbiamo urlare ai bambini, non ci spiega però come trattenerci quando ci troviamo sull’orlo di una crisi di nervi! La stessa cosa vale per l’innovazione educativa: ci sono tanti spunti meravigliosi, ma come fare a portarli in un contesto di classi sovraffollate e spesso ricche di problemi e diversità?

La sfida, secondo noi, passa attraverso la consapevolezza: ciascuno di noi deve informarsi, fare propri gli stimoli che ritiene più interessanti e poi attivare un processo creativo per metterli in pratica. Come fosse un collage!

La consapevolezza dei propri limiti è il punto di partenza (se non l’avete già letto, vi consigliamo di dare un’occhiata; da lì, possiamo cominciare a lavorare, cercando punti di contatto con i bambini. L’importante è non fare il passo più lungo della gamba: tutti i metodi e le tecniche sono destinati a fallire se chi li propone non li ha assimilati in modo profondo.
E allora, meglio metterci il cuore. Meno, ma meglio. E’ il modo più realistico per trasformare in realtà quell’apprendimento caldo che abbiamo elogiato prima.

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