COSÌ PREVARICHIAMO LE DONNE

In occasione della Giornata Internazionale delle donne riportiamo uno brano di Massimo Recalcati. Questo testo compare nel libro “Lasciatele vivere” (Pendragon, 2017).

IL CATTIVO INCONTRO. IL CORPO, LA PAROLA E LA VIOLENZA

Massimo Recalcati

Indubbiamente l’ideologia patriarcale ha tentato di esorcizzare l’eteros della femminilità in svariati modi. A mio parere in tre modi fondamentali.
Il primo: pensando che il diventare madre fosse il destino ineludibile della femminilità. Pensare cioè che la maternità, nella sua versione più sacrificale, fosse il modo per emendare la dimensione anarchica, irregolare, “folle” della femminilità. Nella cultura patriarcale diventare madre significava per una donna morire come donna, rinunciare a essere donna, rinunciare alla libertà della femminilità. Dunque l’aberrazione dell’interpretazione patriarcale della maternità è pensare che la madre debba essere la prigione della donna. È la vocazione sacrificale che ispira il ritratto della madre del patriarcato. La formula madre/donna esemplifica efficacemente la rimozione della femminilità attraverso la gabbia della maternità. Diventare madre è sacrificarsi come donna, è rinunciare alla propria femminilità per dedicarsi esclusivamente alla cura del figlio e della famiglia.

Secondo modo: riducendo la donna a oggetto. Su questo esiste ovviamente una letteratura infinita. Ma quando dico “ridurre la donna a oggetto” cosa intendo precisamente? Pensiamo al Mastro Don Gesualdo di Verga e al rapporto che egli intrattiene con la sua “roba”. Ecco: quando diciamo ridurre la donna a oggetto dovremmo dire ridurre la donna a roba: è “roba mia!”. È una operazione di controllo e di assoggettamento che vorrebbe privare la donna della sua libertà extra-fallica mettendola in cassaforte. Si tratta di annullare, spegnere, cancellare quel margine insopprimibile di libertà che istituisce l’eteros della donna. È l’avarizia che anima la spinta all’appropriazione maschile del corpo femminile perché quel corpo sia riportato alla sua Legge, ovvero alla Legge del fallo. È un modo per provare a risolvere l’angoscia maschile di fronte al senza fondo del godimento femminile.

Sartre affermava ne L’essere e il nulla che l’amore è una forma di possesso, specificando però che in amore non si possiede il corpo dell’amato o dell’amata come si possiede un oggetto. Quando amo io voglio possedere non il semplice corpo dell’amata ma la sua libertà. Ma come si può possedere una libertà? Si può possedere una libertà senza renderla prigioniera?

Può esistere qualcosa come una libertà prigioniera? Questo è il mistero autentico dell’amore. Quando c’è amore – quando c’è la gioia dell’amore – l’amante sceglie sempre liberamente l’amato. L’amore implica sempre la libertà anche se ogni amore è attraversato da una spinta appropriativa. Così Proust nella Recherche si trova di fronte a una profonda insoddisfazione quando ottiene la fedeltà di Albertine solo attraverso la sua reclusione. Cosa se ne fa di una fedeltà ottenuta così? Non è questo genere di fedeltà che desidera l’amore. Ai suoi occhi Albertine diventa un oggetto di proprietà e, in quanto tale, fatalmente declassato, privo di valore. L’amante non vuole avere il corpo dell’amato come oggetto ma come espressione della sua libertà. È la violenza patriarcale che ha comportato la riduzione della donna a roba, a oggetto, volendo cancellare il suo quoziente irriducibile di libertà.

Terzo modo: se è vero che la donna è un nome dell’eteros, cioè della libertà, della trascendenza del desiderio, dell’impossibile da governare, di fronte a questo eteros che s’incarna in modi che gli uomini non sanno leggere e per i quali risultano “analfabeti”, la lingua della donna è per l’uomo una lingua straniera di cui non esiste però dizionario (ricordo che da bambino quando vedevo mia madre uscire di casa, bella com’era con i suoi enormi chignon, mi sembrava un ufo, un extraterrestre…). Si tratterebbe allora di rinunciare alla violenza per apprendere la bellezza di questa lingua. La bellezza dell’amore sarebbe proprio l’apertura al mistero della femminilità. Diversamente la violenza sarebbe la manifestazione di una forma radicale di analfabetismo. Questo analfabetismo si regge su di un postulato maschilista che recita così: “sono tutte puttane!”. È un postulato che istituisce la legittimità dell’esercizio della violenza. È questo un fantasma che abita culturalmente nella mente degli uomini, anche nei più coltivati. Ma cosa vuol dire culturalmente? Vuol dire che nella misura in cui l’uomo non riesce a decifrare la lingua straniera della donna, nella misura in cui il rapporto con l’infinito del godimento e della libertà femminile lo spiazza, lo sconcerta sino all’angoscia turbando la propria solidità fallica, allora per difendersi da questo perturbamento conia la formula fantasmatica “sono tutte puttane!”. In questo modo prova a degradare l’infinito della libertà femminile, l’eccedenza del godimento extra-fallico che appare ingovernabile e angosciante, a una voracità sessuale illimitata. Quella supposta nelle puttane, appunto.

FONTI

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