La riforma dei Gracchi

Nonostante la prosperità di Roma, le condizioni della plebe, composta dai cittadini più poveri, cominciavano a degenerare.
Tiberio Gracco era un nobile, nipote di Scipione l’Africano (il condottiero che aveva sconfitto Annibale nel corso della seconda guerra punica). Nel 133 a.C. fu eletto tribuno della plebe e da quel momento cercò una soluzione per risolvere il problema della povertà.
Ed ecco l’idea: Roma possedeva una quantità molto grande di terreno pubblico. Distribuendo quel terreno pubblico ai più poveri, questi avrebbero potuto diventare contadini liberi e costruirsi, attraverso il lavoro, una propria autonomia. Al tempo stesso, questa manovra non avrebbe toccato gli interessi dei nobili e dei latifondisti, che avrebbero mantenuto il controllo sui loro terreni. Inoltre, i terreni pubblici assegnati alla plebe non potevano essere venduti: in questo modo si sarebbe evitato un ritorno alla povertà (ad esempio per saldare i debiti).
Tiberio Gracco propose questa riforma agraria, che prese il nome di Legge Sempronia.

In realtà, la riforma di Gracco non piacque affatto ai nobili e ai possidenti, che fondavano la loro ricchezza sullo sfruttamento e sulla manipolazione della plebe. Di fronte alla possibilità di ricevere un terreno pubblico, i più poveri non avrebbero accettato le condizioni – al limite della schiavitù – imposte dai latifondisti e questi si sarebbero trovati senza manodopera.
I patrizi, inoltre, promettevano piccoli favori economici alla plebe in cambio del loro voto (una pratica nota come voto di scambio); la riforma agraria avrebbe reso più difficile questa forma di manipolazione.
La nobiltà, nel tentativo di fermare la riforma, convinse l’altro tribuno della plebe, Marco Ottavio Cecina, ad opporre il veto. Tiberio Gracco, tuttavia, non si fece intimidire e fece rimuovere dalla sua carica Cecina. Infatti, se un tribuno della plebe andava contro gli interessi della plebe stessa, la legge permetteva di revocargli il mandato.

Dopo la deposizione di Cecina, la riforma agraria fu approvata, ma metterla in pratica non fu affatto semplice. Infatti, i plebei potevano ricevere del terreno pubblico da coltivare, ma senza gli strumenti adatti, che richiedevano cospicui investimenti, lavorare quel suolo era impossibile o non redditizio.
Tiberio Gracco trovò una soluzione anche a questo problema: in quegli anni era morto il re Attalo III; non avendo eredi, il sovrano aveva lasciato il suo regno e la sua fortuna in eredità a Roma e alla sua popolazione; il tribuno della plebe propose di utilizzare quel denaro per costruire delle piccole fattorie da assegnare ai plebei.
Ancora una volta i patrizi (e dunque il Senato) si oppose alla proposta di Gracco. Infatti, Attalo era un re straniero e le decisioni di politica estera non spettavano ai Comizi, schierati con Gracco, ma al Senato.
Nel frattempo, il mandato di Tiberio Gracco come tribuno della plebe stava per scadere e il Senato gli impedì di candidarsi nuovamente per quella carica. Infatti, secondo la legge, tra una carica e l’altra dovevano trascorrere almeno dieci anni. Questa legge era stata emanata per evitare che qualcuno potesse rivestire la stessa carica troppo a lungo, finendo per diventare un tiranno.
A questa manovra si aggiunse una coincidenza sfortunata: le elezioni dei tribuni della plebe si svolgevano a luglio, quando i contadini erano al lavoro nei campi. Di conseguenza, i sostenitori di Tiberio Gracco non riuscirono a votarlo e a sostenere la sua riforma.
La storia di questa riforma non ha un lieto fine: nel 132 a.C. Tiberio Gracco fu assassinato, durante alcuni tumulti scoppiati a Roma.

Il lavoro di Tiberio Gracco fu portato avanti da suo fratello, Gaio Gracco: accanto alla riforma agraria, propose di estendere la cittadinanza romana ai popoli italici, di distribuire equamente il grano tra la plebe e di concedere più diritti a chi aveva servito nell’esercito. Anche la riforma di Caio Gracco scontentò il Senato che, questa volta, gli mise contro Livio Druso.
In realtà, la riforma di Gracco aveva scontentato la stessa plebe, gelosa della sua cittadinanza: pur di non riconoscere la cittadinanza romana agli italici, i plebei erano disposti a sottostare allo sfruttamento dei patrizi e dei cavalieri.
Anche questa volta scoppiarono dei tumulti a Roma: nel 122 a.C. Gaio Gracco si rifugiò sull’Aventino insieme ai suoi sostenitori armati. Il Senato, tuttavia, offrì l’immunità a tutti coloro che avessero gettato le armi. Gracco si ritrovò solo: nessuno, infatti, aveva intenzione di affrontare l’esercito o essere condannato per tradimento. Il tribuno della plebe, sconfitto, si fece uccidere dal suo schiavo e la riforma agraria fallì.

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