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Per noi il futuro era una certezza. Per i giovani è una minaccia

Mirò, J. (1956). Tavola 2

Abbiamo deciso di proporvi alcune riflessioni sulla scuola e sui giovani del filosofo italiano Umberto Galimberti. Concordate con il suo pensiero? Ritenete che si possa applicare, in tutto o in parte, alla scuola italiana? Noi riteniamo interessanti le riflessioni sui giovani e sul loro futuro, che dovrebbe essere al centro di qualsiasi azione educativa.
Come sempre, vogliamo sottolineare la libertà del pensiero: non è necessario essere d’accordo; qualsiasi critica costruttiva è ben accetta. Allo stesso tempo, il pensiero deve tradursi in azione, altrimenti rimane un esercizio di stile.

Tratto da: Galimberti U. (2020). Intervento al festivalfilosofia

Provate a chiedere ai giovani che cosa sia il futuro. Per noi era una certezza, per esempio la certezza di trovare un lavoro subito dopo la laurea. Per loro il futuro è una minaccia. Quando io mi sono laureato sapevo che avrei insegnato entro due anni, oggi per loro non è certo così. Se bevono e si drogano lo fanno e vivono di notte è perché di giorno chi li chiama per nome? Chi li prende in considerazione? Hanno il massimo della loro forza dai 15 anni. Hanno il massimo della potenza sessuale ma non possono procreare prima dei 35 anni. Hanno il massimo della potenza mentale a quell’età. Perché non usiamo il grande potenziale che hanno nella loro testa? Il momento ideativo è a quell’età. Ecco la fonte primaria del nichilismo diffuso, manca lo scopo: perché mi devo impegnare? Perché devo vivere?

La scuola non dovrebbe avere solo l’istruzione come scopo. La mente non si apre se non si apre il cuore. Quanti di noi hanno studiato tantissimo alcune discipline grazie al fatto che avevano insegnanti affascinanti e quanti hanno studiato poco o niente perché detestavano alcuni altri professori? Perché la scuola funzioni, per prima cosa deve educare che significa riportare all’ordine emotivo e sentimentale. Altrimenti si resta a livello pulsionale. I sentimenti si imparano, sono doti culturali. Le nostre nonne ci raccontavano le storie e in quelle storie vedevano il bene e il male. Dobbiamo reintrodurre la letteratura nelle scuole, confrontarci con il suicidio, con la gioia. Se tu interiorizzi concetti come gioia, suicidio, disperazione, passione, sei educato, ed eviti di fare le cose tragiche a cui assistiamo periodicamente: che razza di società stiamo costruendo?”

La scuola non dovrebbe prevedere classi con più di 30 alunni altrimenti vuol dire che ha deciso che non intende educare. Le classi non devono avere più di dodici, tredici persone e la scuola dovrebbe approfittare del Covid per fare investimenti strutturali che la cambino per sempre. Il fatto che abbiamo ministri scarsi è perché la scuola non interessa a nessuno

I genitori devono essere espulsi dalla scuola perché la loro presenza evita al ragazzino di prendersi le sue responsabilità. I genitori sono interessati alla promozione e il prof per evitare questioni estive davanti al TAR finisce per promuovere tutti. Ma in questo modo non si costruisce una struttura meritocratica. In Italia siamo ancora cittadini, siamo ancora parenti. E finché non si arriva al merito non avremo nessuna società civile. Questa è la mia riforma della scuola ma non si farà mai.

Vanno penalizzati coloro [insegnanti e professori] che rovinano gli studenti. Ci sono persone che inducono al suicidio, perché aggiungono elementi negativi ad altri elementi negativi già presenti nella testa e nell’esistenza dei ragazzi. Occorrerebbe selezionare i professori con test che valutino la personalità, occorre verificare se il docente ha passione e se è capace di appassionare.

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Giacomo Leopardi e il coraggio di andare controcorrente

Hopper, E. (1935). The long leg

Nell’eterna lotta tra bene e male, non è mai semplice scegliere come schierarci: spesso rinunciare a sotterfugi e compromessi ci porta ad essere incompresi, non accettati, ostracizzati talvolta. Nei suoi “Pensieri” un eterno e sempre attuale Giacomo Leopardi ci ricorda quello che purtroppo già sappiamo: ci vuole il coraggio di non seguire la massa per prendere le giuste decisioni. E, soprattutto, di pensare sempre con la propria testa: solo così saremo davvero liberi.

Tratto da: Leopardi, G. (1845). Pensieri

Io ho veduto più volte uomini paurosissimi, trovandosi fra un birbante più pauroso di loro, e una persona da bene piena di coraggio, abbracciare per paura le parti del birbante: anzi questa cosa accade sempre che le genti ordinarie si trovano in occasioni simili: perché le vie dell’uomo coraggioso e da bene sono conosciute e semplici, quelle del ribaldo sono occulte e infinitamente varie. Ora, come ognuno sa, le cose ignoto fanno più paura che le conosciute; e facilmente uno si guarda dalle vendette del generosi, dalle quali la stessa viltà e la paura ti salvano; ma nessuna paura e nessuna viltà è bastante a scamparti dalle persecuzioni segrete, dalle insidie, né dai colpi anche palesi che ti vengono dai nemici vili. Generalmente nella vita quotidiana il vero coraggio è temuto pochissimo; anche perché, essendo scompagnato da ogni impostura, è privo di quell’apparato che rende le cose spaventevoli; e spesso non gli e creduto; e i birbanti sono temuti anche come coraggiosi perché, per virtù d’impostura, molte volte sono tenuti tali.

Rari sono i birbanti poveri: perché, lasciando tutto l’altro, se un uomo da bene cade in povertà, nessuno lo soccorre, e molti se ne rallegrano, ma se un ribaldo diventa povero, tutta la città si solleva per aiutarlo. La ragione si può intendere di leggeri: ed è che naturalmente noi siamo tocchi dalle sventure di chi ci è compagno e consorte, perché pare che sieno altrettante minacce a noi stessi; e volentieri, potendo, vi apprestiamo rimedio, perché il trascurarle pare troppo chiaramente un acconsentire dentro noi medesimi che, nell’occasione, il simile sia fatto a noi. Ora i birbanti, che al mondo sono i più di numero, e i più copiosi di facoltà, tengono ciascheduno gli altri birbanti, anche non cogniti a se di veduta, per compagni e consorti loro, e nei bisogni si sentono tenuti a soccorrerli per quella specie di lega, come ho detto, che v’è tra essi. Ai quali anche pare uno scandalo che un uomo conosciuto per birbante sia veduto nella miseria, perché questa dal mondo, che sempre in parole è onoratore della virtù, facilmente in casi tali è chiamata gastigo, cosa che ritorna in obbrobrio, e che può ritornare in danno, di tutti loro. Però in tor via questo scandalo si adoperano tanto efficacemente, che pochi esempi si vedono di ribaldi, salvo se non sono persone del tutto oscure, che caduti in mala fortuna, non racconcino le cose loro in qualche modo comportabile.

All’opposto i buoni e i magnanimi, come diversi dalla generalità, sono tenuti dalla medesima quasi creature d’altra specie, e conseguentemente non solo non avuti per consorti né per compagni, ma stimati non partecipi dei diritti sociali, e, come sempre si vede, perseguitati tanto più o meno gravemente, quanto la bassezza d’animo e la malvagità del tempo e del popolo nei quali si abbattono a vivere, sono più o meno insigni; perché come nei corpi degli animali la natura tende sempre a purgarsi di quegli umori e di quei principii che non si confanno con quelli onde propriamente si compongono essi corpi, così nelle aggregazioni di molti uomini la stessa natura porta che chiunque differisce grandemente dall’universale di quelli, massime se tale differenza è anche contrarietà, con ogni sforzo sia cercato distruggere o discacciare. Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina. In modo che più volte, mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è strascinato in sui patiboli, essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purché in parole ne sieno salvi.

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Non vogliamo correggerci perché ci consideriamo perfetti

Basquiat, J-M. (1982). Senza titolo

Oggi vi proponiamo alcune riflessioni di Seneca. Nonostante queste parole siano state scritte migliaia di anni fa, risultano particolarmente attuali. Ed ecco una domanda che sembra quasi un gioco di parole: “Come può imparare quanto serve per combattere i vizi chi si applica nei ritagli di tempo che i vizi gli lasciano?”

Tratto da: Seneca. (I secolo d.C.). Lettere a Lucilio

Perché la stupidità ci domina con tanta ostinazione? Punto primo: non la respingiamo con forza e non tendiamo con slancio alla salvezza; punto secondo: non abbiamo sufficiente fiducia nelle verità scoperte dai saggi, non le accogliamo nel profondo del cuore e ci dedichiamo con scarso impegno a una questione tanto importante. Come può imparare quanto serve per combattere i vizi chi si applica nei ritagli di tempo che i vizi gli lasciano?

Nessuno di noi va a fondo; cogliamo solo quanto è in superficie e i pochi minuti spesi per la filosofia bastano e avanzano per gente tanto affaccendata. L’ostacolo maggiore è che siamo subito soddisfatti di noi stessi; se c’è qualcuno che ci definisce valenti, saggi, virtuosi, gli diamo immediatamente credito. Non ci accontentiamo di lodi misurate: accogliamo come dovuto il cumulo di spudorate adulazioni che ci vengono rivolte.

Concordiamo con chi afferma che siamo gli uomini più virtuosi e saggi, pur sapendo che quelle persone mentono spesso e volentieri; siamo così indulgenti con noi stessi perché vogliamo essere lodati per virtù esattamente opposte al nostro modo di agire.

Il carnefice (proprio mentre tortura) si sente definire l’uomo più mite, chi vive di ruberie l’uomo più generoso, il libertino ubriacone l’uomo più temperante; di conseguenza non vogliamo correggerci perché ci crediamo perfetti.

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Il Bruco Mangianoia e il riccio

Alessia de Falco & Matteo Princivalle

C’era una volta un riccio molto timido, talmente timido che il detto “chiudersi a riccio” è nato pensando proprio a lui. Se ne stava in disparte mente gli altri ricci facevano cose da ricci, come ad esempio girovagare, fare scorpacciate di insetti o intrattenersi a conversare con i gatti rossi che sconfinavano nel bosco.

Vi chiederete como mai fosse così timido; ebbene, il riccio si vergognava dei suoi aculei: gli sembravano troppo piccoli rispetto a quelli dei suoi amici e – anche se non ne aveva la certezza – pensava che gli altri ricci lo prendessero in giro. Per questo motivo, decise di allontanarsi e andò a vivere ai piedi di un castagno. Quando in autunno cadevano i ricci che per mesi avevano protetto le castagne, sembravano così simili a lui e per giunta avevano il grande dono di non parlargli alle spalle.

Un giorno passò di lì il Bruco Mangianoia, con un bel cestino: voleva raccogliete un po’ di castagne per poi farne caldarroste o crema di marroni. Quando fu vicino al riccio, vide che si muoveva. “Ehi, sei forse una castagna magica?” chiese il bruco. “No, sono … sono solo … sono solo un riccio … E in me non c’è nulla di magico!” rispose l’animaletto con una vocina tremula, sporgendo il musetto da sotto gli aculei. Il Bruco si avvicinò al piccolo riccio e gli disse: “Tutti abbiamo un potere che ci rende speciali, dobbiamo solo capire qual è”. “Ti sbagli bruco, io non ho davvero nulla di speciale!” ribatté il riccio piccato, poi si accoccolò vicino alle radici del castagno.

Fu allora che il Bruco Mangianoia tirò fuori da cestini una castagna, la spolverò, poi la porse, tutta lucente, al riccio: “Se mi fossi fermato alle apparenze, non avrei trovato questa castagna gustosa. Tutti abbiamo paura di non piacere agli altri, ma i nostri amici ci vogliono bene per quello che siamo e non per quello che vorremmo essere”.

Poi il bruco ripose la castagna nel cestino e, sotto gli occhi del riccio, agitò una zampetta in aria e apparve uno specchio.
“Guarda”, disse al riccio. L’animaletto si avvicinò un po’ timoroso allo specchio, diede una sbirciatina, sgranò gli occhi e sorrise. Lo specchio era magico: gli stava mostrando i suoi amici che, preoccupati per lui, lo cercavano da giorni.
“Ma allora ci tenevano davvero a me!”, disse al Bruco.
“Certo che sì, ma i pensieri degli altri non sono sempre chiari; per questo è meglio parlarsi, prima di giungere a conclusioni affrettate”.

Il Bruco Mangianoia riportò il piccolo riccio dai suoi amici e, prima di salutarlo, gli regalò il cestino di castagne e gli suggerì un paio di ricette da provare. Il riccio fu accolto dagli altri ricci con grande entusiasmo e da quel giorno imparò a preparare una buonissima marmellata di castagne, la migliore di tutto il bosco.

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I pensieri diventano cose: scegliete quelli giusti

Knight L. (1913). Sulle scogliere. Collezione privata

In questa lettura partiamo dalle parole di Friedrich Nietzsche per “smascherare” la vera essenza di ottimismo e pessimismo: si tratta solo di categorizzazioni vuote, se l’uomo, con la sua volontà, si impone di cambiare le cose ed affrontare la vita senza l’alibi della passività o dell’apatia.

Tratto da: Nietzsche, F. (1878). Umano troppo umano

Basta con le parole «ottimismo» e «pessimismo», abusate fino al disgusto! Poiché di giorno in giorno manca sempre più la ragione di usarle; solo i chiacchieroni ne hanno ancora oggi cosi indispensabilmente bisogno. Giacché, per quale ragione al mondo dovrebbe qualcuno voler essere ottimista, se non ha da difendere un Dio che deve aver creato il migliore dei mondi, se egli stesso è la bontà e la perfezione?

Ma quale pensatore ha ancora bisogno dell’ipotesi di un Dio? Manca, però, anche qualsiasi motivo per una professione di fede pessimistica, se non si ha interesse a far arrabbiare gli avvocati di Dio, i teologi o i filosofi teologizzanti, e a porre con forza l’affermazione contraria : che il male governa, che il dolore è più grande del piacere, che il mondo è un’abborracciatura, il prodotto di una malvagia volontà di vita.

Ma chi ancora oggi si cura dei teologi – all’infuori dei teologi? Prescindendo da ogni teologia e confutazione di essa, è chiaro come il sole che il mondo non è né buono né cattivo, e meno ancora il migliore o il peggiore, e che questi concetti di «buono» e «cattivo» hanno senso solo se riferiti agli uomini, e anzi forse neanche qui sono giustificati nel senso in cui vengono comunemente impiegati: della concezione del mondo denigratoria o esaltatrice, dobbiamo in ogni caso sbarazzarci.

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Il bicchiere è mezzo pieno o vuoto? Siamo noi a deciderlo

Van Gogh, V. (1888). Barche da pesca sulla spiaggia di Saintes Maries de la Mer

In questa lettura si pone l’attenzione su ciò che non è l’ottimismo: sicuramente non è una visione edulcorata della vita o un non voler vedere la realtà. Ciò che invece è lo analizzeremo nelle prossime letture.

Tratto da: Bierce A. Aforismi

Ottimismo. Dottrina o credo che vede tutto bello, incluso il brutto; tutto buono, soprattutto il male; e tutto giusto, particolarmente ciò che è sbagliato. È professato con la più grande tenacia da coloro che sono abituati a cadere in disgrazia, e si rivela il più delle volte in stolidi sorrisi e sogghigni scimmieschi. Essendo una fede cieca e assoluta, non si può confutare in alcun modo, per quante prove in contrario si adducano; in breve, si tratta di una malattia dell’intelletto che viene curata solo dalla morte. È anche ereditaria, ma per fortuna non contagiosa.

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