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Il robot del rispetto

Abbiamo ideato questo robot del rispetto per introdurre i bambini a un tema così delicato e tanto complesso. Il rispetto non è facile da definire e non è neppure un valore unitario: somiglia piuttosto a una galassia di valori e comportamenti, dall’unione dei quali nasce una relazione positiva con gli altri.

IL ROBOT DEL RISPETTO

La pancia del robot è vuota; questo per permettere a ciascun bambino di inserire le proprie parole del rispetto, dando inizio a un percorso di riflessione individuale e di discussione collettiva su questo tema.
Si potrebbe introdurre la discussione presentando il robot: “Questo robot si chiama … ed è molto particolare. Infatti, i suoi circuiti non sono alimentati dalla corrente elettrica, ma da una riserva di rispetto, che si trova nella pancia del robot“.
Questa è solo una proposta di lavoro, esistono tante altre strade ugualmente piacevoli da percorrere. Ed ecco un espediente per portare i bambini all’azione: “Purtroppo, nel corso di una missione sul pianeta Terra, il nostro robot ha esaurito le riserve di rispetto e si è disattivato. Per riattivarlo, dobbiamo riempire la sua pancia scrivendo tante parole legate al rispetto“.

E così, nel corso di una prima sessione di lavoro, chiederemo ai bambini di individuare le parole e le azioni che, secondo loro, identificano il rispetto. Possiamo anche offrire loro qualche domanda guida:

  • cosa significa per te rispettare gli altri?
  • chi ti rispetta? Perché?

Per liberare il potenziale creativo e formativo nascosto in questo robot non è sufficiente limitarsi a riempirgli la pancia; dovremo poi discutere insieme della sua dieta e delle parole/frasi che ciascun bambino ha introdotto. La metodologia migliore per riuscirci è quella del circle time.

Ecco alcune tra le parole che ci aspettiamo di leggere all’interno del robot:

  • empatia
  • gentilezza
  • onestà
  • responsabilità
  • aiuto
  • fiducia

Naturalmente, qualsiasi altro termine proposto dai bambini può andar bene; anzi, quanto più il raccolto sarà vario, tanto più la discussione sarà ricca e proficua. Ti lasciamo anche due riflessioni per arricchire la discussione:

  • hai mai analizzato l’etimologia del termine rispetto? Deriva dal latino respicere, che significa guardare indietro; il rispetto, infatti, è prima di tutto una virtù riflessiva, che si esercita ripensando – giorno dopo giorno – alle proprie azioni e a come ci siamo relazionati con gli altri;
  • esiste una definizione unica e comprensiva di rispetto? Secondo noi no: si tratta piuttosto di una galassia composta da tante buone abitudini che, messe insieme, danno vita a delle relazioni ricche di rispetto.

Abbiamo realizzato un template stampabile per il robot del rispetto:

Clicca qui per scaricare questa scheda.

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Il primo triumvirato

Nel 60 a.C. a Roma erano tre gli uomini politici influenti:

  • Caio Giulio Cesare, nipote di Mario e leader dei popolari;
  • Pompeo, condottiero che aveva riportato grandi vittorie in Asia e nel Mediterraneo contro i pirati;
  • Crasso, generale che aveva sconfitto Spartaco; Crasso era un uomo ricchissimo, che aveva fatto fortuna sequestrando i beni confiscati ai nemici politici di Silla, inseriti nelle liste di proscrizione.

Questi tre uomini, nel 60 a.C. formarono un triumvirato, ovvero un accordo per governare senza contrasti. L’accordo prevedeva che Pompeo e Crasso avrebbero sostenuto la candidatura di Cesare come console. In cambio, Cesare avrebbe approvato una legge per distribuire le terre ai veterani di Pompeo e per garantire a Crasso e ai suoi cavalieri la gestione degli appalti pubblici a Roma.
Cesare, Crasso e Pompeo stipularono segretamente questo accordo, che prese il nome di primo triumvirato, a Lucca.
Cesare mantenne i patti e, inoltre, si fece assegnare i territori della Gallia Cisalpina (l’Italia settentrionale), della Gallia Narbonense (Francia meridionale) e dell’Illiria.
Si trattava di province povere, poste ai confini del territorio romano. Cesare le aveva scelte proprio per questa ragione: erano poco ambite dagli altri uomini politici e gli avrebbero permesso di conquistare i territori confinanti, guadagnandosi il supporto dell’esercito.
Prima di partire per la Gallia, Cesare eliminò da Roma i suoi principali nemici politici: Cicerone e Catone. Cicerone fu esiliato per aver violato le leggi di Roma, Catone fu inviato sull’isola di Cipro con un modesto incarico politico.
Tra il 58 a.C. e il 56 a.C. Cesare guidò l’esercito alla conquista della Gallia, territorio che oggi corrisponde alla Francia e a parte della Germania. Cesare approfittò del fatto che i Germani, popolazione venuta dal Nord, stavano attaccando i villaggi dei Galli. In questo modo, l’esercito romano riuscì ad allearsi con molte tribù galliche, mettendo insieme una forza militare notevole. In due anni sbaragliò i nemici e conquistò un territorio immenso.
Le vittorie sul campo e l’abile utilizzo della diplomazia resero Cesare un comandante vittorioso e stimato. Tuttavia, il Senato gli era avverso, poiché rappresentava il fronte dei popolari.
Al suo rientro a Roma, Cesare rinnovò il patto con Pompeo – che invece godeva del supporto del Senato – e con Crasso; il generale, infatti, aveva bisogno di altri cinque anni per sottomettere tutte le Gallie e mentre era impegnato nella sua campagna di conquiste aveva bisogno di una situazione politica stabile a Roma.
Cesare tornò in Gallia; tra il 56 a.C. e il 51 a.C. riuscì nella sua impresa di conquista: tutti i territori abitati dai Galli vennero romanizzati. Il generale si spinse in Britannia, dove sottomise le popolazioni locali imponendo pesanti tributi. Nel 51 a.C. tornò a Roma con le sue legioni vittoriose.

Nel frattempo, Crasso era morto in Siria, ucciso dai Parti e il Senato, per contrastare la figura di Cesare, aveva nominato Pompeo console senza collega, una novità per la repubblica di Roma. Pompeo, in sostanza, rivestiva l’incarico di console ma aveva pieni poteri, alla pari di un dittatore. Pompeo approfittò dei suoi poteri per far richiamare Cesare a Roma, togliendogli il governo delle province che aveva conquistato.
Cesare decise di opporsi a questa decisione: tornò a Roma, ma non lo fece come privato cittadino; marciò insieme alle sue legioni, con l’intenzione di muovere guerra a Pompeo. Quando i soldati attraversarono il fiume Rubicone, in Romagna, scoppiò la seconda guerra civile nella storia della repubblica di Roma (la prima era stata quella scatenata da Silla).
Pompeo, tuttavia, non era preparato ad affrontare Cesare e i suoi legionari e fuggì in Grecia, insieme ad un gruppo di senatori. Cesare entrò a Roma e costituì un nuovo governo, assumendo la carica di console insieme a un uomo di fiducia. Poi, sbarcò in Grecia dove sconfisse duramente Pompeo, a Farsalo (nel 48 a.C.). Pompeo fuggì in Egitto, dove il re Tolomeo lo fece assassinare; con questa mossa, il re sperava di ottenere la simpatia di Cesare. Ma Cesare, invece di premiarlo, lo fece deporre e nominò Cleopatra, sorella di Tolomeo, regina d’Egitto.
Con il governo di Cleopatra anche l’Egitto divenne un’area controllata da Roma. Da lì, Cesare inseguì i figli di Pompeo e i suoi nemici politici in Africa, dove furono sconfitti a Tapso. Cesare approfittò delle vittorie in Africa per conquistare nuovi territori e costituire la provincia Africa Nova.
I pompeiani erano stati sconfitti in più occasioni e i pochi superstiti si rifugiarono in Spagna, dove Cesare li sconfisse un’ultima volta, a Munda. Con la battaglia di Munda, nel 54 a.C. si concluse la seconda guerra civile.

Con la fine della seconda guerra civile, Cesare trasformò la repubblica di Roma in una monarchia: assunse il pieno potere politico ed esecutivo. Il Senato gli aveva conferito la carica di dictator per dieci anni, ma Cesare istituì una nuova carica, quella di imperator. L’imperator aveva i pieni poteri consolari, fungeva da tribuno della plebe e da pontefice massimo, oltre ad essere a capo dell’esercito; questa carica, inoltre, veniva mantenuta a vita.

Cesare, tuttavia, non si comportò da tiranno e non perseguitò i suoi nemici; al contrario, fu benevolo con tutti i nobili e i senatori pompeiani che avevano deciso di accettare la sua autorità. La sua intenzione era quella di conquistarsi così il favore del Senato e dei patrizi. Durante il suo impero, Cesare inviò molti uomini nelle colonie, assegnò terre ai veterani, aumentò il numero dei senatori e riformò il sistema della giustizia. Tra i progetti politici dell’imperator c’era la volontà di eliminare la differenza netta tra Roma e le province, concedendo la cittadinanza e pieni diritti a tutti gli abitanti dei territori più lontani da Roma.

Questi progetti non erano benvisti dai senatori, che vedevano nell’estensione dei diritti la fine della supremazia di Roma; fu organizzata una congiura per assassinare Cesare e ripristinare l’oligarchia che aveva caratterizzato la repubblica. Il 15 marzo del 44 a.C. Cesare fu assassinato mentre entrava in Senato. Tra i suoi assassini c’era anche Bruto, suo figlio adottivo.

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Per sviluppare la creatività ci vuole il coraggio di fallire

Un insegnante di ceramica decise di fare un esperimento interessante: durante la prima lezione del suo corso divise i suoi allievi in due gruppi. Al primo gruppo diede il compito di produrre venti chili di vasi nel corso della lezione. Solo producendo venti o più chili di vasi avrebbero ottenuto un voto eccellente. Al secondo gruppo diede il compito di realizzare un solo vaso. Questo, però, doveva essere perfetto.
Ma come andò a finire? Il gruppo al quale era stata richiesta la realizzazione di un unico capolavoro aveva realizzato vasi mediocri, banali. Al contrario, coloro i quali si erano concentrati sulla quantità, avevano prodotto vasi di ottima fattura. Dopo gli errori iniziali, infatti, avevano trovato soluzioni creative per produrre i vasi: la loro creatività aveva trovato terreno fertile per esprimersi.

Questo esperimento è stato raccontato da David Bayles e Ted Orland nel libro “Art and Fear”. La conclusione? Perché vi sia un processo creativo di successo, bisogna trovare il coraggio di fallire. La perfezione non si raggiunge cercandola: concentrarsi su di essa, al contrario, finisce per bloccarci in un circolo vizioso. Al contrario, solo chi comincia con tentativi relativamente semplici e aggiusta il tiro lungo il cammino può sperare di eccellere.
La lezione degli studenti di ceramica, che si può sintetizzare nel motto “Fallisci più in fretta che puoi” (è la traduzione, più o meno letterale, del metodo descritto da Andrew Stanton, direttore artistico di due capolavori come “Alla ricerca di NEMO” e “WALL-E”), andrebbe portata nelle nostre vite. Non tentiamo di fare del nostro meglio: facciamo e basta, più che possiamo. L’eccellenza passa attraverso un gran numero di fallimenti.

Molte aziende di successo hanno già portato questo principio all’interno della loro cultura d’impresa, dei loro valori. Google, Pixar e Apple sono solo tre esempi di una lista molto più lunga. Queste imprese hanno raggiunto i gradi più alti del loro settori grazie a questa mentalità di crescita.
Anche noi possiamo sviluppare un simile potenziale creativo: dobbiamo imparare a fallire rapidamente e a riprovarci.

FONTI

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Una torta per chiedere scusa

Imparare a scusarsi e a riconoscere i propri errori è una competenza chiave, che entra nella galassia – assai più complessa e articolata – del rispetto. Perché facciamo tanta fatica a scusarci e ad imparare anche dai contrasti? Questione di orgoglio, ma anche – e forse soprattutto – della mancanza di una procedura per trasformare questi contrasti in strumenti di crescita.

Per parlare ai bambini dell’importanza di chiedere scusa, abbiamo realizzato questo template a forma di torta. Abbiamo pensato che, a volte, le rappresentazioni grafiche possono essere d’aiuto e così ci siamo inventati la “torta delle scuse”. Si tratta di un esercizio molto semplice: per ogni strato della torta, abbiamo inserito uno spunto di riflessione per indagare le vere ragioni del nostri agire. Come vedete, l’obiettivo non è solo imparare a fare un passo indietro e chiedere scusa, ma anche trarre una lezione su come migliorare in futuro, facendo tesoro delle esperienze passate.
Di fronte a un litigio, grande o piccolo che sia, si può ricorrere a questa torta per analizzare la situazione e per indirizzare al meglio la reazione emotiva e comportamentale.

Si comincia dalla base della torta, che identifica un problema emotivo: mi dispiace perché…
Ferire qualcuno è sempre spiacevole, così come è sgradevole sentirsi feriti. Per questa ragione i litigi e le discussioni ci fanno male. Il primo passo per risolvere la situazione è capire cosa ha provocato la nostra reazione e, al tempo stesso, empatizzare con quella dell’altro.

Il secondo strato della torta prevede invece un approfondimento razionale: ho sbagliato perché…
Riconoscere i propri errori a caldo è impossibile, specialmente per via del prevalere delle emozioni. Il cervello emotivo, molto più immediato di quello razionale, antepone i suoi sentimenti e ci impedisce di guardare con lucidità. Dopo aver ragionato sulle emozioni, è il momento di passare all’analisi dei nostri errori. È buona regola guardare ai propri errori, lasciando che siano gli altri a pensare ai loro.

L’ultimo strato della torta è legato all’azione: come posso sistemare le cose? 
Infatti, dopo aver analizzato le cause che hanno scatenato un litigio o una situazione di tensione, è indispensabile passare all’azione, cucendo una toppa sullo strappo e rinsaldando le relazioni sociali. Se manca questa fase proattiva, tutto il discorso sulle emozioni è perfettamente inutile. Ecco perché questo strato si trova al di sopra di quello legato alle emozioni e a quello legato alla razionalizzazione.

Per finire, c’è la ciliegina sulla torta: la prossima volta farò…
Guardiamo a ogni piccolo incidente sociale come ad un maestro prezioso. Tutti i fallimenti lo sono, nella misura in cui ci meditiamo sopra e li utilizziamo come linee guida, capaci di modificare positivamente i nostri pensieri e comportamenti futuri. Ragionare su come, in futuro, affronteremo una situazione simile significa trasformare un episodio spiacevole in un momento altamente educativo.

Qui sotto potete trovare il template della nostra torta delle scuse, pronta da stampare e colorare:

Cliccate qui per stampare il template della torta delle scuse in bianco e nero.

UN LIBRO PER VOI: L’ALMANACCO DEL CUORE

Se siete genitori o educatori che amano mettersi in gioco, vi raccomandiamo il nostro Almanacco del Cuore.
Si tratta di un percorso di crescita della durata di 90 giorni: attraverso 90 pensieri illustrati da colorare (accompagnati da un manuale di istruzioni e vari modi d’uso) potrete focalizzarvi su ciò che conta davvero. Questo libro è un vero e proprio eserciziario di coaching creativo per riscoprire la semplicità del benessere.
Per acquistarlo, cliccate sulla copertina qui sotto:

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La dittatura di Silla

In seguito alle riforme dei Gracchi e ai tumulti che ne erano derivati, a Roma si erano formate due fazioni contrapposte:

  • gli ottimati, ovvero gli aristocratici;
  • i popolari, ovvero la plebe e i cavalieri.

Negli anni successivi, tuttavia, il Senato mantenne una linea di governo molto prudente, confermando la legge agraria (pur con alcune modifiche a vantaggio degli aristocratici).
Nel 91 a.C. gli italici, ai quali non era stata concessa la cittadinanza, fecero scoppiare la guerra sociale, per ottenere i diritti politici. La guerra durò quattro anni e si concluse nell’88 a.C. con il riconoscimento della cittadinanza a tutti i popoli italici ma non solo: tutti gli abitanti delle città che avessero deciso di sottomettersi spontaneamente a Roma avrebbero ottenuto la cittadinanza romana.

Nello stesso anno, Lucio Cornelio Silla viene eletto console. Silla era un comandante aristocratico che aveva vinto numerose guerre alla testa delle sue legioni. Il Senato e gli ottimati avevano deciso di puntare su Silla e sul suo prestigio per contrastare il leader dei popolari, Mario. Appena un anno più tardi, Silla venne inviato a combattere contro Mitridate VI, re del Ponto. Questo giovane re, infatti, aveva dato vita a un’alleanza di popoli dell’Asia per contrastare l’espansione romana.
Mario, tuttavia, non accettò la decisione di far condurre l’esercito a Silla e lo fece richiamare a Roma. Silla, che si trovava in Asia, non appena ricevette la comunicazione che gli intimava di rientrare, fece rientrare tutte le legioni.
Entrato a Roma con l’esercito, Silla non rinunciò alla sua carica. Invece, diede inizio a una sanguinosa guerra civile contro Mario e i suoi sostenitori. La guerra durò poco: Mario, che non aveva un esercito, fu costretto a fuggire in Africa insieme ai suoi.
Silla diventò dittatore: per la prima volta dalla nascita di Roma, un console aveva utilizzato l’esercito per prendere il potere e aveva violato le leggi democratiche e il patto sociale che, fino a quel momento, aveva tenuto insieme la Repubblica.
La carica di dittatore non era mai stata utilizzata per governare: il dictator, infatti, era un comandante che assumeva i pieni poteri sull’esercito e sul governo solo in casi di eccezionale gravità. Questa carica era stata ideata per permettere a Roma di fronteggiare gravi minacce mettendo – temporaneamente – un uomo di valore al comando.

Silla, divenuto dittatore, riprese la guerra contro Mitridate VI, che sconfisse in breve tempo. Al giovane re, Silla impose condizioni di pace pesanti. Nel frattempo, Mario era tornato dall’Africa e lo schieramento dei popolari aveva ripreso a contrastare il console. Questa volta Silla si nominò dittatore a tempo indeterminato e cominciò a perseguitare militarmente Mario e i suoi simpatizzanti.
Una delle mosse più spiacevoli di Silla fu la pubblicazione delle liste di proscrizione. In questi elenchi erano scritti i nomi di tutti coloro che avevano appoggiato Mario. Chi era inserito nelle liste di proscrizione poteva essere ucciso in qualsiasi momento, senza un regolare processo. Inoltre, non poteva accedere alle cariche pubbliche e i suoi beni venivano confiscati dallo Stato.
Silla e i suoi uomini inserirono in queste liste non solo i nemici politici, ma anche i nemici personali, dando inizio a una serie di sanguinose vendette.
Inoltre, Silla propose la riforma sillana, che toglieva ai tribuni della plebe i loro diritti e rendeva l’accesso alle cariche pubbliche più complesso; questa riforma fu proposta a vantaggio del Senato e dei patrizi. Tuttavia, la riforma di Silla vietava di far entrare l’esercito a Roma: con questa norma, il dittatore sperava che nessun altro si sarebbe impadronito del potere come aveva fatto lui.
Un altro effetto importante della riforma fu legato ai veterani dell’esercito: Silla dispose che a ciascun veterano, al termine del suo servizio nell’esercito, fosse assegnato un appezzamento di terreno, in modo tale che potesse ritirarsi a vita privata.

Nel 79 a.C. Silla si ritirò dalla politica e lasciò la carica di dittatore. Roma tornò ad essere una Repubblica. Tuttavia, la dittatura di Silla aveva creato un pericoloso precedente: il console era stato il primo uomo ad impadronirsi del potere grazie all’appoggio dell’esercito e a violare apertamente le leggi della Repubblica.

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La riforma dei Gracchi

Nonostante la prosperità di Roma, le condizioni della plebe, composta dai cittadini più poveri, cominciavano a degenerare.
Tiberio Gracco era un nobile, nipote di Scipione l’Africano (il condottiero che aveva sconfitto Annibale nel corso della seconda guerra punica). Nel 133 a.C. fu eletto tribuno della plebe e da quel momento cercò una soluzione per risolvere il problema della povertà.
Ed ecco l’idea: Roma possedeva una quantità molto grande di terreno pubblico. Distribuendo quel terreno pubblico ai più poveri, questi avrebbero potuto diventare contadini liberi e costruirsi, attraverso il lavoro, una propria autonomia. Al tempo stesso, questa manovra non avrebbe toccato gli interessi dei nobili e dei latifondisti, che avrebbero mantenuto il controllo sui loro terreni. Inoltre, i terreni pubblici assegnati alla plebe non potevano essere venduti: in questo modo si sarebbe evitato un ritorno alla povertà (ad esempio per saldare i debiti).
Tiberio Gracco propose questa riforma agraria, che prese il nome di Legge Sempronia.

In realtà, la riforma di Gracco non piacque affatto ai nobili e ai possidenti, che fondavano la loro ricchezza sullo sfruttamento e sulla manipolazione della plebe. Di fronte alla possibilità di ricevere un terreno pubblico, i più poveri non avrebbero accettato le condizioni – al limite della schiavitù – imposte dai latifondisti e questi si sarebbero trovati senza manodopera.
I patrizi, inoltre, promettevano piccoli favori economici alla plebe in cambio del loro voto (una pratica nota come voto di scambio); la riforma agraria avrebbe reso più difficile questa forma di manipolazione.
La nobiltà, nel tentativo di fermare la riforma, convinse l’altro tribuno della plebe, Marco Ottavio Cecina, ad opporre il veto. Tiberio Gracco, tuttavia, non si fece intimidire e fece rimuovere dalla sua carica Cecina. Infatti, se un tribuno della plebe andava contro gli interessi della plebe stessa, la legge permetteva di revocargli il mandato.

Dopo la deposizione di Cecina, la riforma agraria fu approvata, ma metterla in pratica non fu affatto semplice. Infatti, i plebei potevano ricevere del terreno pubblico da coltivare, ma senza gli strumenti adatti, che richiedevano cospicui investimenti, lavorare quel suolo era impossibile o non redditizio.
Tiberio Gracco trovò una soluzione anche a questo problema: in quegli anni era morto il re Attalo III; non avendo eredi, il sovrano aveva lasciato il suo regno e la sua fortuna in eredità a Roma e alla sua popolazione; il tribuno della plebe propose di utilizzare quel denaro per costruire delle piccole fattorie da assegnare ai plebei.
Ancora una volta i patrizi (e dunque il Senato) si oppose alla proposta di Gracco. Infatti, Attalo era un re straniero e le decisioni di politica estera non spettavano ai Comizi, schierati con Gracco, ma al Senato.
Nel frattempo, il mandato di Tiberio Gracco come tribuno della plebe stava per scadere e il Senato gli impedì di candidarsi nuovamente per quella carica. Infatti, secondo la legge, tra una carica e l’altra dovevano trascorrere almeno dieci anni. Questa legge era stata emanata per evitare che qualcuno potesse rivestire la stessa carica troppo a lungo, finendo per diventare un tiranno.
A questa manovra si aggiunse una coincidenza sfortunata: le elezioni dei tribuni della plebe si svolgevano a luglio, quando i contadini erano al lavoro nei campi. Di conseguenza, i sostenitori di Tiberio Gracco non riuscirono a votarlo e a sostenere la sua riforma.
La storia di questa riforma non ha un lieto fine: nel 132 a.C. Tiberio Gracco fu assassinato, durante alcuni tumulti scoppiati a Roma.

Il lavoro di Tiberio Gracco fu portato avanti da suo fratello, Gaio Gracco: accanto alla riforma agraria, propose di estendere la cittadinanza romana ai popoli italici, di distribuire equamente il grano tra la plebe e di concedere più diritti a chi aveva servito nell’esercito. Anche la riforma di Caio Gracco scontentò il Senato che, questa volta, gli mise contro Livio Druso.
In realtà, la riforma di Gracco aveva scontentato la stessa plebe, gelosa della sua cittadinanza: pur di non riconoscere la cittadinanza romana agli italici, i plebei erano disposti a sottostare allo sfruttamento dei patrizi e dei cavalieri.
Anche questa volta scoppiarono dei tumulti a Roma: nel 122 a.C. Gaio Gracco si rifugiò sull’Aventino insieme ai suoi sostenitori armati. Il Senato, tuttavia, offrì l’immunità a tutti coloro che avessero gettato le armi. Gracco si ritrovò solo: nessuno, infatti, aveva intenzione di affrontare l’esercito o essere condannato per tradimento. Il tribuno della plebe, sconfitto, si fece uccidere dal suo schiavo e la riforma agraria fallì.

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