Categoria: blog

DAL DIARIO DI ANNA FRANK

Mercoledì, 3 maggio 1944

Come ben ti puoi immaginare, qui dicono sovente, disperati: «A che cosa serve mai la guerra? Perché gli uomini non possono vivere in pace? Perché devastare tutto?». La domanda è comprensibile, ma finora nessuno ha ancora trovato una risposta soddisfacente. Già, perché in Inghilterra fanno aeroplani sempre più grandi, bombe sempre più pesanti e, nello stesso tempo, case prefabbricate in serie per la ricostruzione? Perché si spendono ogni giorno milioni per la guerra e nemmeno un centesimo per l’assistenza medica, per gli artisti, per i poveri. Perché gli uomini debbono soffrire la fame, quando in altre parti del mondo si lasciano marcire i cibi sovrabbondanti? Perché gli uomini sono così pazzi? Non credo affatto che la guerra sia soltanto colpa dei grandi uomini, dei governanti e dei capitalisti. No, la piccola gente la fa altrettanto volentieri, altrimenti i popoli si sarebbero rivoltati da tempo. C’è negli uomini un impulso alla distruzione, alla strage, all’assassinio, alla furia, e fino a quando tutta l’umanità, senza eccezioni, non avrà subito una grande metamorfosi, la guerra imperverserà: tutto ciò che è stato ricostruito o coltivato sarà distrutto e rovinato di nuovo; e si dovrà ricominciare da capo. Sono stata sovente abbattuta, ma mai disperata; considero questa vita clandestina come una avventura pericolosa, ma romantica e interessante. Mi consolo delle privazioni divertendomi a descriverle nel mio diario. Mi sono proposta di condurre una vita differente da quella delle altre ragazze e, più tardi, da quella delle solite donne di casa. Questo è il bell’inizio della vita interessante; e perciò, perciò soltanto, nei momenti più pericolosi, debbo ridere del lato umoristico della situazione. Sono giovane e posseggo molte virtù ancora nascoste, sono giovane e forte e vivo questa grande avventura, ci sono in mezzo e non posso passar la giornata a lamentarmi. La natura mi ha favorito dandomi un carattere felice, gioviale ed energico. Ogni giorno sento che la mia mente matura, che la liberazione si avvicina, che la natura è bella, che la gente attorno a me è buona, che quest’avventura è interessante. Perché dunque dovrei disperarmi? La tua Anna.

FONTI

  • A. Frank, Diario, Newton & Compton, 2015

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SEI CAPACE DI ASCOLTARE? METTITI ALLA PROVA CON QUESTO TEST

Abbiamo parlato più volte dell’ascolto attivo e della sua importanza. La maggior parte delle persone dovrebbe cominciare il suo percorso di allenamento emotivo potenziando l’ascolto, vero e proprio tallone di Achille del genere umano!
Come? Sei un ascoltatore provetto? Facciamo una prova: qui sotto puoi trovare un velocissimo test per mettere alla prova le tue capacità di ascoltare. Non devi fare altro che leggere le istruzioni e seguirle. Un avvertimento: pochissime persone riescono a superare questo test (in una classe di scuola primaria, non più di 1/2 bambini per classe; i numeri non migliorano molto tra gli adulti). Non è semplice come può sembrare.

Per completare questo test sono sufficienti un foglio e una matita.
Puoi utilizzare anche il foglio su cui è stampato questo test.
Prima di cominciare, leggi attentamente tutti i punti. 

  1. Metti una “X” nell’angolo in basso a destra del tuo foglio;
  2. Scrivi il tuo nome in alto a sinistra del foglio;
  3. Disegna una piccola circonferenza sul lato sinistro del foglio;
  4. Disegna una piccola circonferenza sul lato destro del foglio;
  5. Fai una piega sull’angolo in basso a sinistra del foglio;
  6. Alza le mani per circa 10 secondi;
  7. Scrivi il nome di tre colori sul retro del foglio;
  8. Quanto fa 2+2? Scrivilo su uno qualsiasi dei margini del foglio;
  9. Ignora tutti i punti precedenti; esegui solo il 2;
  10. Rimani in silenzio fino alla fine del test.

Non dirci che hai cominciato mettendo la X (o immaginando: “semplice, lo faccio subito”) prima di arrivare alla fine delle istruzioni. La maggior parte delle persone che si cimentano con questo semplice test lo fa. Di fronte ad un compito apparentemente semplice, dimentica la premessa “prima di cominciare, leggi attentamente tutti i punti” e si mette in azione.
Questo comportamento esprime un pregiudizio e costituisce una barriera all’ascolto. Succede la stessa cosa quando, dopo poche parole, pensiamo di sapere già tutto di ciò che il nostro interlocutore ci dirà.

Puoi utilizzare questo semplice test anche in classe (a partire dalla seconda classe della scuola primaria): è un esercizio eccellente per far comprendere ai bambini l’importanza dell’ascolto e gli errori a cui un cattivo ascolto può condurre.
A proposito, il test è pronto per la stampa, in formato PDF: puoi stamparlo cliccando qui.

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PER CRESCERE UN BAMBINO CI VUOLE UN INTERO VILLAGGIO

Un proverbio africano recita: “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio“. Pensa a questa frase: quanto è vera nel mondo e nel tempo in cui viviamo? Secondo noi molto poco: la nostra società è caratterizzata da legami deboli, dalla mancanza di tempo da dedicare alle relazioni.

Qualche giorno fa abbiamo proposto un breve questionario per raccogliere le vostre richieste e capire quali temi sviluppare. Diversi lettori ci hanno chiesto di proporre esercizi concreti per l’educazione, pratiche da sperimentare a casa nel “qui ed ora”. Secondo noi, riprendendo il proverbio africano, potresti cominciare da qui: “ricostruisci il villaggio che ti serve per crescere i tuoi bambini“.
Solo così potrai ritrovare un po’ di tempo per te stessa/o senza sentirsi in colpa. Solo così i bambini potranno avere una rete che li sostiene  e condivide valori. Dietro il concetto di comunità educante c’è la divisione del carico mentale. Educare è una questione delicata, si consuma tanta energia. Più siamo ad educare, più il carico è lieve.

Ecco qualche spunto:

  • coltiva le tue amicizie, cercando occasioni per stare insieme con altri adulti e altri bambini;
  • frequenta luoghi di scambio, di confronto e relazione (parchi, associazioni, oratori);
  • nei limiti delle tue possibilità, impegnati a costruire luoghi di scambio (associazioni formali e non, gruppi “children friendly”, etc.);
  • cerca di partecipare alla vita scolastica in modo collaborativo e costruttivo;
  • non temere il confronto educativo; non farà male a te né ai tuoi bambini;
  • accetta che altre persone possano avere idee sull’educazione diverse dalle tue; non sarà questo a danneggiare i tuoi bambini;
  • fai la tua parte: forse non lo sai, ma anche tu sei un’educatrice o un educatore.

Ricorda queste parole (che abbiamo trovato sul bel sito dell’Istituto comprensivo di Pavone):

Comunità è cercare insieme soluzioni condivise ai problemi.
Comunità è asciugare gli occhi di un bambino quando ne ha bisogno, è ridere con lui quando è felice, è aiutarlo e avvolgerlo di sicurezza, ogni giorno.
Comunità è ascoltare ogni voce, ma con rispetto, perché ognuno ha una storia passata ed una storia da vivere“.

FONTI

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PER NON DIMENTICARE

“Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte. Quando ci chiamavano sapevamo che era per decidere se eravamo ancora utili e potevamo andare avanti, o se eravamo vecchi pezzi irrecuperabili. Da buttare. Era un momento terribile. Bastava un cenno ed eri salvo, un altro ti condannava. Dovevamo metterci in fila, nude, passare davanti a due SS e a un medico nazista. Ci aprivano la bocca, ci esaminavano in ogni angolo del corpo per vedere se potevamo ancora lavorare. Chi era troppo stanca o troppo magra, o ferita, veniva eliminata. Bastavano pochi secondi agli aguzzini per capire se era meglio farci morire o farci vivere. Io vedevo le altre, orrendi scheletri impauriti, e sapevo di essere come loro. Gli ufficiali e i medici erano sempre eleganti, impeccabili e tirati a lucido, in pace con la loro coscienza. Era sufficiente un cenno del capo degli aguzzini, che voleva dire “avanti”, ed eri salva. Io pensavo solo a questo quando ero lì, a quel cenno. Ero felice quando arrivava, perché avevo tredici anni, poi quattordici. Volevo vivere. Ricordo la prima selezione. Dopo avermi analizzata il medico notò una cicatrice. «Forse mi manderà a morte per questa…» pensai e mi venne il panico. Lui mi chiese di dove fossi e io con un filo di voce ma, cercando di restare calma, risposi che ero italiana. Trattenevo il respiro. Dopo aver riso, insieme agli altri, del medico italiano che mi aveva fatto quella orrenda cicatrice, il dottore nazista mi fece cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione! Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che tutto mi sembrava più facile. Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l’acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur di vivere. Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci. Il rimorso non mi diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità.”

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Il 98% dei bambini è un genio creativo

Nel 1993 la NASA contattò il Dott. George Land e la Dott. sa Beth Jarman affinché sviluppassero un test per misurare la creatività dei propri ingegneri e degli scienziati che lavoravano nelle basi missilistiche.
Il test fu realizzato con grande precisione e si rivelò uno strumento efficace per analizzare il potenziale creativo delle persone. Tuttavia, gli scienziati, incuriositi dal concetto di creatività, provarono a sottoporre lo stesso test a un gruppo di bambini. Il risultato fu che il 98% di loro ottenne un risultato sufficiente per definirli dei veri e propri geni creativi.
Il test venne ripetuto all’età di 10 anni: la percentuale di “geni” era scesa al 30%. A quindici anni erano solo il 12%. Una volta diventati adulti, la percentuale raggiunse il minimo: solo il 2% dei bambini sottoposti al test risultava ancora creativo.

Com’è possibile questo calo repentino e drammatico? I fattori che Land e Jarman considerano come principali responsabili della morte della creatività sono il sistema scolastico e l’educazione. Entrambi, infatti, lavorano quasi esclusivamente sul pensiero logico razionale, il cosiddetto pensiero convergente. Non solo: il pensiero divergente viene soppresso, dal momento che viene ritenuto inutile ai fini del successo scolastico. In altre parole, i bambini nascono dotati di un forte pensiero creativo mentre il pensiero non-creativo è una forma di pensiero appreso.

La creatività, in ogni caso, non è un numero scritto nero su bianco: si può allenare. La potenzialità più straordinaria del nostro cervello è la plasticità. Tutti noi possiamo migliorare, giorno dopo giorno. Puoi cominciare subito, con un esercizio suggerito dai due scienziati che hanno realizzato il test di cui abbiamo parlato. Non devi fare altro che prendere una forchetta e pensare ad almeno 25-30 modi per migliorare questo semplice strumento. Prova a rispondere insieme ai tuoi bambini: ne verrà fuori una bella palestra creativa.

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VAMPING: LA NUOVA – E PERICOLOSA – MODA DEI RAGAZZI

Una buona norma è quella di lasciare ai ragazzi il massimo grado di libertà e autonomia possibile. Tuttavia, come sosteneva Alexander Neill (padre della pedagogia libertaria), ci sono alcuni casi in cui anche il più democratico degli educatori non deve chiedere il permesso di intervenire ai suoi ragazzi. Interviene e basta. Stiamo parlando dei casi in cui c’è un pericolo evidente e manifesto: in queste occasioni, abbiamo il dovere di salvare chi corre un pericolo esattamente come soccorreremmo qualcuno per strada.

Recentemente abbiamo letto un esempio che spiega in modo perfetto questa posizione. Stiamo parlando del vamping, che viene descritto bene da Maura Manca, psicologa e psicoterapeuta esperta delle tematiche dell’adolescenza, in un osservatorio del sito Adolescienza:

Il Vamping, ossia la moda degli adolescenti di trascorrere numerose ore notturne sui social media, sembra diventata una vera e propria abitudine, tanto che 6 adolescenti su 10 dichiarano di rimanere spesso svegli fino all’alba a chattare, parlare e giocare con gli amici o con la/il fidanzata/o, rispetto ai 4 su 10 nella fascia dei preadolescenti.
La tendenza, invece che accomuna tutti i ragazzi è di tenere a portata di mano il telefono quasi tutto il giorno, notte compresa, fino al 15% che si sveglia quasi tutte le notti per leggere le notifiche e i messaggi che gli arrivano per non essere tagliati fuori, altra patologia emergente legata all’abuso dello smartphone (FOMO – Fear of Missing Out). Questi comportamenti vanno ad influenzare negativamente la qualità e la quantità del sonno, con conseguenze nocive per l’organismo e vanno ad interferire sulle attività quotidiane dei ragazzi, fino a determinare importanti difficoltà di concentrazione e di attenzione che gravano sul rendimento scolastico, favoriscono l’insorgenza di stati ansiosi, intaccando  l’umore e gli impulsi“.

Un’abitudine del genere nuoce gravemente alla salute e richiede un intervento immediato. L’ideale sarebbe stabilire tempi e limiti precisi per l’uso delle tecnologie, abituando i bambini sin da piccoli a non abusarne. L’educazione è la forma di prevenzione più efficace.

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