Categoria: blog

PROVA E FALLISCI

Quello del perfezionismo non è altro che uno scudo, che utilizziamo per evitare che qualcuno possa criticarci. Nascondendo i nostri errori, ci mettiamo al riparo dal giudizio e dalla critica. Però, rinunciamo ad imparare dai nostri errori.  Contro il perfezionismo si è battuta Maria Montessori, che credeva nell’errore come un “faro” in grado di guidare tanto lo scienziato quanto il bambino e la maestra. Anche Gianni Rodari vedeva nell’errore un principio, un punto di partenza (più vicino al linguaggio e alla vita sociale che alla scienza).

E se invece di rifiutare gli errori rifiutassimo di giudicare chi li commette? Il tema del perfezionismo contrapposto alla pedagogia dell’errore è comparso ne “Il nuovo metodo danese, saggio che analizza alcuni tratti interessanti della scuola e della società danese, tra cui la tendenza a imparare dai propri errori invece di inseguire la perfezione:

Lene Christophersen, che lavora poco fuori Copenaghen, insegna ai suoi allievi come accogliere gli errori e come essere curiosi. Utilizza proprio l’acronimo FAIL (errore in inglese): First Attempt In Learning (il primo passo dell’apprendimento). Vuole che i suoi studenti si concentrino sul processo di assimilazione e non sul risultato. Alla base di questo approccio c’è la convinzione che si possa imparare molto di più da quel che sbagliamo che da quel che facciamo correttamente. Linea Nors dice che i suoi compagni non si sentivano né dispiaciuti né a disagio a lavorare sulle brutte copie, perché era considerata una cosa normale. Questa soluzione mette a nudo anche la vulnerabilità, ma i ragazzi non si giudicano a vicenda in base a chi è peggiore o migliore, perché imparano dai propri errori e sono in competizione unicamente con se stessi“.

Klaus Nedergaard, manager di uno di questi parchi appena fuori Copenaghen, dice: è importante sentirsi autorizzati a sbagliare, è solo così che diventi più saggio e impari a far bene le cose. Invece di dire ai bambini come fare una certa cosa per filo e per segno, è molto meglio lasciare che sperimentino e trovino da soli cosa funziona e cosa no“.

Il detto popolare recita: “sbagliando s’impara“. È il caso di trasformarlo in un principio educativo!

FONTI

 

 

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IL GIOCO DELL’ELASTICO

Il gioco dell’elastico è un classico gioco psicomotorio per bambini. Vedere dal vivo come funziona questo gioco vale più di mille regole e spiegazioni. Così, abbiamo pensato di condividere con te il bel video realizzato da “Giochi di strada”, che include anche le varianti meno note del gioco dell’elastico.

Come per gli altri giochi di una volta (campana, sacco pieno e sacco vuoto, etc.) anche il gioco dell’elastico è un’attività utilissima ai fini dello sviluppo motorio. Per decenni, i nostri bambini hanno imparato a muoversi, correre e saltare attraverso questi semplici giochi. Negli ultimi anni, purtroppo, queste attività sono state accantonate in favore della tecnologia; il risultato è l’analfabetismo motorio.
Riscopriamo i giochi di una volta: riportiamo i bambini nei cortili e nei parchi, diamo loro la possibilità di muoversi e giocare. Anche da questo dipende la loro felicità.

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LASCIAMO CHE I BAMBINI SI ASSUMANO LE PROPRIE RESPONSABILITA’

Come affrontare il tema della responsabilità in famiglia? Secondo l’educazione democratica di Alexander Neill, i genitori dovrebbero limitarsi ad evitare che i bambini si facciano male in modo serio.
Ecco il resoconto della sua esperienza a Summerhill (la Summerhill School, scuola basata sui principi della pedagogia libertaria, fondata da Neill nel 1921 e attiva ancora oggi):

In molte famiglie l’io dei bambini viene soffocato perché i genitori trattano i figli come perpetui lattanti. Ho conosciuto una ragazza di quattordici anni alla quale i genitori, per sfiducia, non permettevano nemmeno di accendere il fuoco. I genitori, con le migliori intenzioni, tendono ad allontanare dai figli qualsiasi responsabilità…
A Summerhill non domandiamo ai bambini di cinque anni se vogliono o no il parafuoco. Non domandiamo ad un bambino di sei anni che ha la febbre se vuole uscire o no. E nemmeno domandiamo ad un bambino esausto se vuole andare a letto o meno. Non si deve chiedere ad un bambino ammalato il permesso di dargli le medicine. Ma l’imporre l’autorità ad un bambino piccolo, un’autorità necessaria, non deve mai venire in conflitto con il principio che al bambino si deve dare tutta la responsabilità che alla sua età è in grado di accettare. Nel determinare che grado di responsabilità si deve dare ad un bambino, i genitori devono fare un esame di coscienza. Devono prima di ogni altra cosa esaminare se stessi.
I genitori che non permettono ai bambini di scegliersi da soli i vestiti, lo fanno in genere perché pensano che questi possano sceglierli non consoni alle condizioni sociali dei genitori. I genitori che censurano le letture dei loro figli, o i loro spettacoli cinematografici, o i loro amici generalmente tentano di imporre ai figli le loro idee in maniera coercitiva. Questi genitori adducono semplicemente come scusa la pretesa di sapere quale sia il meglio, mentre ciò che li spinge a comportarsi in questo modo è facilmente il desiderio inconscio di esercitare qualche forma di autoritarismo. Nel complesso i genitori dovrebbero concedere ai figli tutta la responsabilità possibile, con il dovuto riguardo alla loro sicurezza personale. Solo in questo modo svilupperemo in loro la fiducia di sé“.

FONTI

  • A. S. Neill, Summerhill: un’esperienza educativa rivoluzionaria, Rizzoli, 1979

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Il problema dell’analfabetismo motorio

Quello dell’analfabetismo motorio è un problema preoccupante, che colpisce il nostro paese in misura significativa. Leggiamo il parere di due esperti, tratto da un articolo di Quotidiano.net:

Per le giovani generazioni si può parlare di analfabetismo motorio. Matteo Panichi, papà di due bimbi, è il responsabile della preparazione fisica delle nazionali di basket e ha una lunghissima esperienza nei settori giovanili. Quando si lavora con i più giovani sono evidenti tante carenze dal punto di vista motorio – aggiunge – . Ai ragazzi di oggi mancano i fondamenti di base. Penso, per esempio, alle capacità di coordinazione che si imparano con il gioco e l’esperienza. Non è luogo comune dire che è anche perché non ci sono più campetti e oratori
I dati dell’Istat confermano che siamo il Paese più sedentario d’Europa racconta Andrea Ceciliani coordinatore del Corso di Laurea in Scienze delle attività motorie e sportive dell’università di Bologna. Non bisogna assolutamente sottovalutare il fenomeno. I bambini di oggi hanno difficoltà che riguardano lo spazio e le capacità di movimenti. Esercizi che sembrano banali, come le capriole, ora bisogna insegnarli. Appunto per questo motivo l’idea di portare l’educazione fisica alle elementari piace a tutti. “Quella è l’età in cui si creano abitudini stabili”, aggiunge Ceciliani“.

Queste considerazioni portano a due conclusioni differenti: la prima è l’assoluta necessità di portare l’educazione motoria nelle scuole, cominciando dalla scuola dell’infanzia e passando per la scuola primaria. Praticare attività motoria seguiti da un docente specializzato è un fondamentale della buona educazione (tra l’altro, come abbiamo già spiegato in questo articolo, se i bambini si muovono migliora la qualità dell’apprendimento didattico nelle altre ore).
La seconda è il bisogno di ricostruire degli spazi di aggregazione infantile. Quello degli oratori di una volta era un modello vincente, aperto a tutti e sostenibile. Oggi stiamo assistendo a una progressiva scomparsa degli spazi dell’infanzia: si tratta di una cornice infelice, all’interno della quale la dipendenza digitale è un elemento secondario. La verità è che i nostri bambini, per varie ragioni, sono “imprigionati” nelle loro case e non trascorrono un tempo sufficiente all’aperto, in compagnia dei propri coetanei.

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ECCO PERCHE’ I DANESI RISPETTANO DAVVERO I BAMBINI

Leggendo “Il nuovo metodo danese“ siamo rimasti colpiti da un concetto chiave dell’educazione in danimarca. Stiamo parlando del barnesyn, che tradotto letteralmente indica il “ciò che il bambino vede“. Il concetto di barnesyn è molto forte in Danimarca: gli adulti trattano i bambini con dignità ma soprattutto, si sforzano di guardare le cose adottando la prospettiva dei bambini. In questo modo è più semplice comprenderne i bisogni reali e soddisfarli senza mancare loro di rispetto.

Jesper Juul, psicoterapeuta esperto di dinamiche familiari, ha spiegato la pari dignità come segue: Le persone hanno bisogno di essere viste, sentite e prese sul serio in quanto individui. Vale lo stesso per i bambini.
La domanda non è se gli adulti abbiano o meno il potere. Ce l’abbiamo sempre, anche quando ci sentiamo sopraffatti, dice Jesper Juul. Quel che dobbiamo chiederci è come scegliamo di usare questo potere. La pari dignità è l’opposto del rimprovero, della morale indotta, del giudizio e della mortificazione. Possiamo trattare gli altri con pari dignità anche quando siamo arrabbiati o tristi… 
Dobbiamo assumerci la responsabilità del potere che abbiamo“.

Comprendere il punto di vista del bambino, i suoi bisogni e le differenze tra i suoi pensieri e quelli degli adulti è la chiave per uscire dalla crisi genitoriale che viviamo.
Spesso consideriamo i bambini come degli adulti in miniatura; pretendiamo che ciò che ha valore per noi ne abbia altrettanto per loro, ma non è così. Il sociologo Neil Postman teorizzò la scomparsa dell’infanzia già negli Anni Ottanta. Purtroppo, la sua profezia si è avverata, danneggiando tutta la famiglia.
Per uscire da questa empasse, dobbiamo innanzitutto riprenderci il concetto di barnesyn: restituiamo ai bambini la propria dignità. Se non sai dove cominciare, noi abbiamo trovato estremamente utili (e pragmatici) i consigli operativi dello psicologo John Gottman. Li abbiamo raccolti in vari articoli: puoi cominciare dalle cinque fasi dell’allenamento emotivo o dai dieci comportamenti dei genitori allenatori emotivi.

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I BAMBINI E LA MORTE

Lavorare sulle emozioni non significa solo abbracciarsi e parlare insieme. Per essere efficaci, bisogna guardare al mondo delle emozioni nella sua complessità, senza trascurare le emozioni negative. Un esempio tipico è quello della morte: quanti programmi di educazione emotiva dedicano uno spazio alla morte? Eppure, tra gli eventi che ci riguardano, la morte è uno di quelli più intensi dal punto di vista delle emozioni.

A questo proposito, vogliamo riportare l’esperienza scolastica danese. In Danimarca, in linea con il principio di Autenticità, non si fa mistero della morte ai bambini. Al contrario, è uno dei temi che vengono affrontati a scuola. Ecco cosa ci racconta Jessica Joelle Alexander ne “Il nuovo metodo danese per educare i bambini alla felicità a scuola e in famiglia“:

La morte di qualcuno che fa parte dell’ambiente scolastico in modo più o meno diretto – può essere un insegnante, un collega, il parente di un alunno – si affronta in maniera molto diretta e ben strutturata. 
I bambini che entrano in contatto con la morte vengono sostenuti moltissimo. Esistono diversi protocolli a seconda della situazione cui devono rispondere e del livello di gravità, in modo che la scuola sia sempre preparata a ogni evenienza. C’è un protocollo che stabilisce anche come e quando parlare alla classe se qualcuno muore, per dare modo a tutti di esprimere le proprie emozioni, grandi o piccole che siano.
In particolare gli insegnanti prestano particolare attenzione a rintracciare eventuali sensi di colpa nei bambini, poiché si tratta di una reazione piuttosto frequente. 
Ci sono anche altre fasi importanti, dopo il funerale, dedicata a “ricordare di ricordarsi” chi non c’è più. I ragazzi sono invitati, ad esempio, a stabilire giornate speciali in cui commemorare la persona che se n’è andata o andare a visitare la sua tomba, oltre che a condividere e discutere temi complessi quali la tristezza, la perdita o il senso della vita“.

Accanto a questi protocolli scolastici, che vengono supervisionati e progettati con l’aiuto di psicologi specializzati, in Danimarca si fa un grande uso delle storie per affrontare il tema della morte. Ne avevamo già parlato a proposito dell’autenticità nelle fiabe danesi (basti pensare alla “Piccola fiammiferaia” di Andersen).

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