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I BAMBINI ANDREBBERO RICHIAMATI OPPURE NO?

È giusto alzare la voce con i bambini? O forse dovremmo richiamarli attraverso il nostro silenzio? È facile giudicare ed offrire soluzioni, specialmente per chi, con i bambini, non lavora quotidianamente.
Tuttavia, non esiste una soluzione al problema del richiamo; o meglio, non esiste un’unica soluzione. A questo proposito ti segnaliamo qualche riga di Maria Montessori, che aveva compreso molto bene la questione della disciplina e che ci offre una metafora calzante: l’insegnante non assomiglia a una macchina che esegue un ordine ma piuttosto ad un medico. E proprio come un medico, deve essere in grado di comprendere il paziente che si trova davanti per suggerire la cura migliore, così l’insegnante dovrà scegliere se e come richiamare i suoi bambini.

La maestra che per inesperienza o per troppa rigidità o eccessiva semplicità di principi ed idee, si trova in una simile situazione (il disordine e la confusione generati dai bambini), deve ricordare le forze che giacciono sopite in queste piccole anime divinamente pure e generose. Deve aiutare a risalire queste creaturine, che stanno correndo a precipizio lungo una via discendente. Deve chiamarle, destando i dormienti con la voce e con il pensiero. Un vigoroso e fermo richiamo è solo e vero atto di bontà verso queste piccole anime. Non temete di distruggere il male: soltanto il bene dobbiamo temere di distruggere…

Soltanto la sua intelligenza (dell’insegnante, ndr) può risolvere il problema che sarà differente per ogni caso individuale. L’insegnante conosce i sintomi fondamentali e i chiari rimedi, la teoria del trattamento; tocca a lei il resto. Il buon medico, come l’insegnante, è un individuo, non una macchina per somministrare medicine o applicare metodi pedagogici. I particolari vanno lasciati al giudizio della maestra, che sta anch’essa muovendo i primi passi sulla nuova via: a lei giudicare se vale meglio alzare la voce nel disordine generale o sussurrare a pochi bambini, così che sorga negli altri una curiosità che riconduca la quiete. Una corda del pianoforte colpita vigorosamente spegne il disordine come una sferzata“.

Queste righe dovrebbero aiutarci a comprendere la complessità e l’importanza del ruolo degli insegnanti, aiutandoci anche a superare i giudizi preconfezionati.

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La mente assorbente

Oggi vogliamo approfondire il concetto di mente assorbente, vero e proprio cardine del metodo Montessori e concetto importantissimo per chi si occupa di educazione.

“Il bambino assorbe le costruzioni del linguaggio. E come avviene questo? Si dice: “Egli ricorda le cose”; ma, per ricordare, occorre aver memoria, e il bambino non ne ha, la deve anzi costruire. Egli dovrebbe avere la capacità di ragionare per rendersi conto che la costruzione di una frase è necessaria a renderla comprensibile. Ma il bambino non ha la facoltà di ragionare, deve crearsela. 
La nostra mente, così com’è, non arriverebbe là dove arriva il bambino; per una conquista come quella del linguaggio è necessaria una forma di mente diversa; e questa forma appunto possiede il bambino: un tipo d’intelligenza diversa dalla nostra. 
Potremmo dire che noi acquistiamo le conoscenze con la nostra intelligenza, mentre il bambino le assorbe con la sua vita psichica. 
Noi siamo recipienti… il bambino subisce invece una trasformazione: le impressioni non solo penetrano nella sua mente, ma la formano. Esse s’incarnano in lui. Il bambino crea la propria “carne mentale”, usando le cose che sono nel suo ambiente. Abbiamo chiamato il suo tipo di mente Mente assorbente“.

Questo tipo di mente permette al bambino di imparare, senza nessun insegnante, molte più cose di quante se ne potrebbero imparare frequentando una scuola. Si tratta di una capacità di apprendimento prodigiosa. Maria Montessori, prima a riconoscere questa facoltà desiderava mettere a punto una metodologia di lavoro che allungasse quanto più possibile la vita della mente assorbente.

La nostra opera di adulti non consiste nell’insegnare, ma nell’aiutare la mente infantile nel lavoro del suo sviluppo. Sarebbe meraviglioso se noi potessimo, col nostro aiuto, con un intelligente trattamento del bambino, con la comprensione dei bisogni della sua vita, prolungare il periodo in cui opera in lui la capacità di assorbire”.

Ecco la premessa, nata dall’osservazione, del metodo Montessori.

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I chiodini: il giocattolo educativo che resiste al digitale

C’erano una volta i chiodini colorati. E ci sono ancora: questo gioco di composizione e di destrezza ha resistito all’assalto dei videogiochi e oggi viene considerato da pedagogisti e educatori un passatempo creativo capace di stimolare in modo positivo la mente dei più piccoli.

Quella dei chiodini è una storia tutta italiana: prodotti da Quercetti a Torino, vengono esportati in tutto il mondo (recentemente sono approdati anche in Cina) insieme ad una filosofia del gioco educativo estremamente interessante: mentre altri produttori hanno inseguito la tecnologia videoludica, producendo giocattoli sempre più simili alle mode digitali, Quercetti continua a stampare chiodini senza sosta. E paradossalmente, sono i videogiochi ad inseguire i chiodini: infatti, la proliferazione di videogiochi legati al concetto di composizione e progetto creativo (pensa alle modalità creative di Minecraft) non è altro che una rivisitazione di alcuni giocattoli tradizionali, come i chiodini e i LEGO.

C’è una differenza: giocare manipolando oggetti reali stimola anche la motricità. Insegna al bambino a toccare con mano le proprie creazioni e aiuta la mente ad approfondire i concetti spaziali in modo diverso da quanto avviene con uno schermo digitale. E infatti, la ricerca scientifica si sta concentrando proprio sullo studio dei benefici legati ai giochi come i chiodini.

Andrea Biancardi, dell’Università di Bologna, ha spiegato a Repubblica che: “I bambini con difficoltà di coordinazione manuale possono, attraverso i chiodini, migliorare la loro motricità fine, con effetti anche su altre abilità come la grafia, il disegno e la coordinazione manuale nel suo complesso. Inoltre attraverso i chiodini possono inventare o riprodurre modelli grafici, allenando così anche le abilità di ragionamento visuo-spaziale“.

Gli studiosi di neurobiologia del Karolinska Institute di Stoccolma, inoltre, hanno trovato correlazioni positive tra il gioco con i chiodini e le abilità linguistiche dei bambini. Questo gioco, in modo simile a quello che avevamo già descritto per i LEGO, induce uno sviluppo positivo delle facoltà cognitive dei piccoli giocatori.

Noi quest’estate ci siamo divertiti proprio con il set Daisy di chiodini Quercetti. Possiamo assicurarti che ne è valsa la pena.

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LA BUONA EDUCAZIONE PER PREPARARSI ALLA SCUOLA

Daniele Novara, pedagogista e fondatore del CPP, è convinto dell’importanza della buona educazione, ovvero l’insieme delle buone pratiche convalidate dalla scienza e alla portata di tutti. Purtroppo, la proliferazione incontrollata delle informazioni, unita alla mistificazione delle fonti, può trarre in inganno un genitore che, come è naturale, non è detto sia uno scienziato o un pedagogista. Facciamo un esempio. Daniele Novara, nel suo testo “Non è colpa dei bambini“, suggerisce tre buone pratiche per tutti i bambini in età scolare:

A scuola in buone condizioni
Uno: i bambini devono dormire. Un bambino che frequenta un tempo pieno ha bisogno di dormire almeno 10 ore per notte.
Due: i bambini devono fare colazione prima di arrivare a scuola. Sembra scontato, eppure la gestione della fase del risveglio è un problema piuttosto diffuso e serio. Se un bambino non fa colazione, inevitabilmente andrà in crisi, è fisiologico.
Tre: occorre evitare l’invadenza degli schermi. Un bambino che passa 2 o 3 ore al giorno davanti a un videoschermo, magari prima di dormire e prima di andare a scuola, inevitabilmente nel contesto scolastico sarà distratto, quando non addirittura assente. Gli studi più recenti che hanno approfondito la questione sostengono che il tempo massimo che in fase di sviluppo un bambino dovrebbe passare davanti a uno schermo sia sui 40 minuti al giorno
“.

In sostanza, l’educazione comincia realizzando un ambiente adatto e favorevole all’apprendimento, un ambiente a partire dal quale sarà possibile compiere tanti passi ulteriori.

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IMPARIAMO A GIUDICARE DAGLI ATTI, NON DALLE PAROLE

Il mondo delle emozioni e dei sentimenti non è di facile interpretazione. Là dove cuore e parole si mescolano, molti di noi fanno una grande fatica per rimanere a galla. Purtroppo, capita spesso che si provi un sentimento e che, per una serie di – anche valide – ragioni ci si comporti in tutt’altra maniera. Questo è tanto più vero con i bambini.
Come abbiamo ribadito tante volte, il giudizio è uno degli strumenti più pericolosi tra quelli a disposizione dell’uomo: tutti noi lo utilizziamo largamente e non potremmo farne a meno. Tuttavia, se il giudizio si trasforma in pregiudizio, rischia di portarci a conclusioni ed azioni sbagliate. A questo proposito, abbiamo recuperato un passaggio dell’VIII capitolo de “Il Piccolo Principe, vero e proprio scrigno di spunti di riflessione educativa:

Così l’aveva ben presto tormentato con la sua vanità un poco ombrosa. Per esempio, un giorno, parlando delle sue quattro spine, gli aveva detto:
“Possono venire le tigri, con i loro artigli!”
“Non ci sono tigri sul mio pianeta”, aveva obiettato il piccolo principe, “e poi le tigri non mangiano l’erba”.
“Io non sono un’erba”, aveva dolcemente risposto il fiore.
“Scusami…”
“Non ho paura delle tigri, ma ho orrore delle correnti d’aria… Non avresti per caso un paravento?”
“Orrore delle correnti d’aria? E’ un po’ grave per una pianta”, aveva osservato il piccolo principe. “E’ molto complicato questo fiore…”
Alla sera mi metterai al riparo sotto a una campana di vetro. Fa molto freddo qui da te… Non e’ una sistemazione che mi soddisfi. Da dove vengo io…”
Ma si era interrotto. Era venuto sotto forma di seme. Non poteva conoscere nulla degli altri mondi. Umiliato di essersi lasciato sorprendere a dire
una bugia cosi’ ingenua, aveva tossito due o tre volte, per mettere il piccolo principe dalla parte del torto…
“È questo un paravento?”
“Andavo a cercarlo, ma tu non mi parlavi!”
Allora aveva forzato la sua tosse per fargli venire dei rimorsi. Così il piccolo principe, nonostante tutta la buona volontà del suo amore, aveva cominciato a dubitare di lui. Aveva preso sul serio delle parole senza importanza che l’avevano reso infelice.
“Avrei dovuto non ascoltarlo”, mi confidò un giorno, “non bisogna mai ascoltare i fiori. Basta guardarli e respirarli. Il mio, profumava il mio pianeta, ma non sapevo rallegrarmene. Quella storia degli artigli, che mi aveva tanto raggelato, avrebbe dovuto intenerirmi.”
E mi confidò ancora: “Non ho saputo capire niente allora! Avrei dovuto giudicarlo dagli atti, non dalle parole. Mi profumava e mi illuminava. Non avrei mai dovuto venirmene via! Avrei dovuto indovinare la sua tenerezza dietro le piccole astuzie. I fiori sono così contraddittori! Ma ero troppo giovane per
saperlo amare”.

E quando innaffio’ per l’ultima volta il suo fiore, e si preparo’ a metterlo al riparo sotto la campana di vetro, scopri’ che aveva una gran
voglia di piangere.
“Addio”, disse al fiore.
Ma il fiore non rispose.
“Addio”, ripeté.
Il fiore tossì. Ma non era perché fosse raffreddato.
“Sono stato uno sciocco”, disse finalmente, “scusami, e cerca di essere felice”.
Fu sorpreso dalla mancanza di rimproveri. Ne rimase sconcertato, con la campana di vetro per aria. Non capiva quella calma dolcezza.
“Ma sì, ti voglio bene”, disse il fiore, “e tu non l’hai saputo per colpa mia. Questo non ha importanza, ma sei stato sciocco quanto me. Cerca di essere felice. Lascia questa campana di vetro, non la voglio più”.
“Ma il vento…”
“Non sono così raffreddato. L’aria fresca della notte mi farà bene. Sono un fiore”.
“Ma le bestie…”
“Devo pur sopportare qualche bruco se voglio conoscere le farfalle, sembra che siano così belle. Se no chi verrà a farmi visita? Tu sarai lontano e delle grosse bestie non ho paura. Ho i miei artigli”.
E mostrava ingenuamente le sue quattro spine. Poi continuò:
“Non indugiare così, e’ irritante. Hai deciso di partire e allora vattene”.
Perché non voleva che io lo vedessi piangere. Era un fiore cosi’ orgoglioso…”

Ti sei mai trovata/o in una situazione simile a quella del Piccolo Principe?

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LA CADUTA LIBERA DELLA MEMORIA E DELLA CAPACITA’ DI SCRITTURA

Il QI medio degli esseri umani è in caduta libera dagli anni ’70 ad oggi e uno studio condotto per capire le motivazioni di questa oscillazione ha escluso categoricamente la possibilità che si tratti di una questione genetica. La responsabilità è dell’ambiente: tecnologia e media, stili di vita, alimentazione, educazione.

Certo, la definizione stessa di QI non deve essere utilizzata come metro di riferimento assoluto, però il dato fa riflettere: stiamo diventando sempre più stupidi? Secondo il pedagogista Benedetto Vertecchi, una fetta consistente di responsabilità va attribuita alla digitalizzazione, che ha invaso anche la scuola intaccando la qualità degli apprendimenti:

Benedetto Vertecchi, docente di pedagogia sperimentale all’università di Roma Tre, sostiene che l’uso delle tecnologie determina una caduta nella capacità di scrivere non solo in senso meccanico, con grafie sempre più incomprensibili o strani mix di stili e caratteri nelle stesse parole: corsivo e stampatello, maiuscolo e minuscolo. Ma problemi anche nell’apprendimento. Una caduta che investe sia la capacità di tracciare i caratteri, sia quella di organizzarli correttamente in parole, da usare per organizzare il messaggio. In pratica, l’uso di mezzi digitali comporta l’attenuazione, e talvolta la perdita, della capacità di coordinare il pensiero con l’attività necessaria per tracciare i segni: gli alunni delle scuole elementari hanno sempre più difficoltà a usare le forbici e a livello ortografico sono spesso un disastro. L’intervento nella scrittura digitale di correttori automatici riduce la consapevolezza ortografica. Il ricorso ossessivo alla funzione copia e incolla riduce la necessità di sviluppare una linea argomentativa. Ma per Vertecchi l’effetto più pericoloso è la caduta della memoria. «La tecnologia abitua i bambini a pensare che c’è sempre una risposta all’esterno», e non nella loro testa“.

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