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Il Giorno della Memoria. Una sfida pedagogica

Il Giorno della Memoria ricorre il 27 gennaio di ogni anno, in ricordo del 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Questa importante ricorrenza è stata istituita per legge e rappresenta una grande sfida pedagogica per gli insegnanti e gli educatori.

In questa pagina abbiamo raccolto alcuni spunti per una didattica della Shoa trasparente ed efficace, con la speranza che attraverso la memoria si possa forgiare il futuro.

Didattica della Shoa

Perché insegnare la Shoa? Addentrarsi con lucidità nella complessità di questi eventi è un’operazione significativa in riferimento al presente, nel tentativo di sviluppare gli anticorpi necessari per riconoscere e combattere le nuove manifestazioni di discriminazione, sopraffazione, razzismo e risorgente antisemitismo, come sappiamo – purtroppo – ancora oggi in agguato; per capire come l’intolleranza verso qualcuno sia
sempre sintomo di un’intolleranza e di una violenza più generalizzata. Scomporre il passato e cercare di comprenderlo aiuta a capire e vivere il presente. È un modo per imparare ad esercitare nella nostra società una cittadinanza attiva e consapevole. Sappiamo bene che la democrazia senza educazione non si regge. La si impara studiando e vivendo.

Come insegnare la Shoa? La moderna pedagogia e l’esperienza didattica internazionale hanno individuato per i bambini delle scuole primarie modalità di approccio graduali e non traumatiche, che privilegino vicende in cui i protagonisti si salvano, testimoniando valori positivi di speranza e fiducia negli altri e nella vita.

Rimettere al centro gli individui – L’International School for Holocaust Studies (un settore del centro studi Yad Vashem di Gerusalemme) considera prioritario che qualsiasi percorso di studio sulla Shoah ponga al centro dei suoi obiettivi formativi ed etici il principio di salvare ogni individuo dall’anonimato.
Proprio in riferimento all’incontenibile numero di persone brutalmente eliminate e al rischio che questo possa condurre ad una percezione non corretta di quanto accaduto, la proposta pedagogica di Yad Vashem è quella di focalizzare l’attenzione sulla storia di vita di ogni singola persona, sulla famiglia e sulle caratteristiche socio-culturali delle comunità ebraiche che sono state spazzate vie dalla bufera distruttrice nazifascista.
È sempre necessario considerare il dramma della Shoah, restituendo alle vittime la dignità di esseri umani unici e irripetibili,  con un volto, un corpo, con pensieri, desideri, passioni, aspettative, con la loro rete di relazioni interpersonali. Lo studio del cambiamento dei sistemi di vita delle persone in prossimità degli eventi permette di rimanere dentro la dimensione umana della Shoah e di costruire degli strumenti di comprensione della realtà, anche attuale, di fondamentale importanza.
[…]
Sono molte le storie che possono essere presentate a questo riguardo. Le storie dei sopravvissuti ci trasmettono una grande forza di volontà e il profondo desiderio di tornare alla vita facendo ogni sforzo per mettere da parte il male subito e ricostruire ciò che il nazifascismo aveva distrutto. Ci sono molteplici possibilità di raccogliere,  ascoltare e fare uso didattico/educativo delle testimonianze come storie di vita.

FONTI
Linee Guida Nazionali per una didattica della Shoa a scuola, su miur.gov.it

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La geografia è una materia fondamentale: senza di essa non possiamo comprendere il mondo

Viviamo in un mondo bellissimo, ma accanto a tanta bellezza ci sono delle sfide importanti; sfide cruciali per il futuro della vita umana e per il nostro pianeta. Ma siamo in grado di coglierle? La geografia è la disciplina che può insegnarci entrambe le cose: ad apprezzare la bellezza e a riconoscere i problemi aperti. Eppure, questa disciplina è sempre più ai margini della didattica e della scuola.

Ma perché la geografia è così importante? Ecco cinque validi argomenti in proposito:

  • Perché soltanto attraverso di essa possiamo acquisire il senso dello spazio, uscendo da una prospettiva strettamente personale (quella della nostra casa) ed entrando in una prospettiva globale, su scala progressivamente più ampia (quartiere, città, regione, stato, continente, mondo); questo senso dello spazio è fondamentale per partecipare in modo consapevole alla vita sociale e per progettare il proprio futuro.
  • Perché, al contrario, soltanto una visione globale ci permette di valorizzare la dimensione locale; se la globalizzazione rinuncia alla geografia e al senso dello spazio, a rimetterci saranno proprio le piccole realtà locali.
  • Perché questo nuovo senso, quello dello spazio, ci aiuta a crescere: come il viaggio in terre lontane, anche lo studio della geografia ci permette di incontrare l’altro da sé, il diverso e a trovare punti di contatto, possibili sinergie. È attraverso questi incontri che diveniamo in grado di amare il nostro territorio e il nostro paese in modo autentico.
  • Perché colloca l’uomo all’interno di una dimensione ecologica, fatta di elementi che interagiscono tra loro. Nessuna vita è isolata e lo studio della geografia ci aiuta a comprendere le relazioni che ci legano con la dimensione in cui abitiamo.
  • Perché ci insegna ad amare il nostro pianeta, che è straordinario. Far conoscere le meraviglie della natura è il modo migliore per educare le nuove generazioni a conservare e tutelare il patrimonio che riceveranno in dote. La geografia è il migliore antidoto allo sfruttamento selvaggio ed incosciente delle risorse e dei territori.

Le Indicazioni Nazionali 2007 per il curricolo della scuola dell’infanzia ci offrono alcuni altri spunti di riflessione: “È soprattutto alla geografia che spetta il delicato compito di conferire il senso dello spazio, accanto a quello del tempo: gli allievi devono attrezzarsi di coordinate spaziali per orientarsi in un territorio. Occorre che, fin dalla scuola primaria, siano abituati ad analizzare ogni elemento nel suo contesto spaziale, a partire da quello locale fino ad arrivare ai contesti mondiali. Il raffronto della realtà locale con quella globale, e viceversa, è possibile attraverso la continua comparazione di spazi, letti e interpretati a scale diverse, servendosi anche di carte geografiche, fotografie aeree e immagini da satellite. Altra irrinunciabile opportunità formativa che la geografia offre è quella di abituare a osservare la realtà da diversi punti di vista. […]
Fare geografia a scuola vuol dire formare cittadini italiani e del mondo consapevoli, autonomi, responsabili e critici, che sappiano convivere con il loro ambiente e sappiano modificarlo in modo creativo e sostenibile, guardando al futuro”.

Per trasmettere questi importanti valori educativi, occorre concepire una geografia che non sia fatta di dati e cartine da studiare a memoria, ma di grandi domande. Occorre che la geografia diventi un viaggio alla scoperta del mondo, dei paesi lontani, degli scenari naturali e delle interazioni tra l’uomo e la natura. Come per tutti gli altri campi del sapere, occorre che la geografia susciti curiosità.

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Riscopriamo la solitudine buona, quella da cui germoglia la conoscenza di sé

Oggi siamo raramente da soli; certo, trascorriamo sempre meno tempo in compagnia degli altri, ma siamo circondati da oggetti il cui fine ultimo è proprio quello di evitarci la solitudine. Pensiamo ai dispositivi digitali, alla messaggistica, alle notifiche che ci avvisano di tutto ciò che accade là fuori.
Eppure, la solitudine non è un mostro del quale avere paura; esiste una solitudine buona, fatta di silenzio: è questa che ci porta a riscoprire il nostro mondo interiore e che genera la conoscenza. A questo proposito fanno riflettere le parole di Romano Guardini:

Solo nel silenzio si attua la conoscenza autentica. Conoscenza non è semplicemente notizia. Anche questa è senza dubbio buona e indispensabile. Si sa per esempio che una persona è malata e soffre. Ci si preoccupa, si cercano rimedi, o si chiama il medico, e tutto è in ordine. Invece chi mira alla conoscenza si domanda: Che cosa è mai questo, il dolore? Che cosa segue a causa del dolore in un’esistenza quando il dolore viene interiormente accettato, vissuto, oppure respinto? E, nel caso di quest’uomo che soffre, come incide il dolore nella sua vita? Sono domande che non trovano risposta finché se ne parla. O forse una risposta estrinseca; non di certo una intrinseca che comprende e coglie l’essenza. A chi parla sfugge precisamente ciò di cui importa: l’intimo termine di confronto; lo sguardo sull’esistenza che ha davanti; l’intuizione che colga il modo come questa singola irripetibile esistenza si svolge. Per tutto ciò io devo concentrarmi; devo far silenzio, pormi interiormente dinanzi a ciò che intendo, penetrarlo identificandomi con il suo sentimento. Allora, nei buoni momenti, mi si fa chiaro: in quest’uomo sofferente avviene cosí e cosí. Questo solo è conoscenza, alba di verità. Chi non sa tacere, non la sperimenta mai“.

Ma che cos’è questo silenzio, questa solitudine di cui parla Guardini? Perché esistono certamente due solitudini: 1) quella che fa soffrire, “il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi” come l’ha definita Jose Saramago, l’isolamento, che impoverisce la mente e l’anima delle persone; 2) “quella sopportabile, che ci fa compagnia“, sempre con le parole dello stesso autore.

La seconda solitudine è quella che genera la conoscenza, ma per apprezzarla dobbiamo riscoprire il piacere del silenzio: dobbiamo sopprimere il chiasso interiore, il caos dei nostri pensieri, che vomitiamo all’esterno ogni giorno. C’è una massima dello psichiatra piemontese Eugenio Borgna, che ci insegna a fare tesoro del silenzio: “Chi non fa che parlare, non si possiede realmente, giacché scivola via di continuo da se stesso, e ciò che egli dona agli altri non sono che vacue parole“. Già, perché il silenzio è bello. 

BIBLIOGRAFIA
E. BORGNA, Parlarsi. La comunicazione perduta, Einaudi, 2015
J. SARAMAGO, L’anno della morte di Ricardo Reis, Feltrinelli, 1985

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I due cavalli

FAVOLE SCELTE: I DUE CAVALLI
Lev Tolstoj

Due cavalli tiravano ognuno il proprio carro. Il primo cavallo non si fermava mai; ma l’altro sostava di continuo. Allora tutto il carico viene messo sul primo carro. Il cavallo che era dietro e che ormai tirava un carro vuoto, disse sentenzioso al compagno: “Vedi? Tu fatichi e sudi! Ma più ti sforzerai, più ti faranno faticare.” Quando arrivarono a destinazione, il padrone si disse: ‘ Perché devo mantenere due cavalli! Mentre uno solo basta a trasportare i miei carichi? Meglio sarà nutrir bene l’uno, e ammazzare l’altro; ci guadagnerò almeno la pelle del cavallo ucciso! ‘ E così fece.

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“Ti auguro di vivere”: una poesia per ricordarci che l’arte è medicina dell’anima

Poeticamente abita l’uomo su questa terra“.
F. Hölderlin

L’uomo deve sopravvivere, prosaicamente. Eppure, la mera sopravvivenza è vita solo a metà: quando abbiamo atteso a tutti i doveri della sopravvivenza, quando abbiamo un tetto sopra la testa e un piatto caldo che ci attende sul tavolo, quando abbiamo provveduto ai bisogni dei nostri bambini, non abbiamo ancora compiuto il nostro destino. Per fiorire dobbiamo scoprire la poesia che dimora nella nostra esistenza, dobbiamo farci poeti e uditori; dobbiamo imparare ad osservare, ad ascoltare e infine a scrivere la nostra storia.
Questa è una delle lezioni più interessanti dei nostri tempi; il primo a parlare di prosa e poesia nella vita è stato Edgar Morin, ma sin dall’antichità gli uomini cercano ristoro nell’arte, medicina dell’anima.
Abbiamo scelto per voi una poesia (del poeta francese Jean Debruynne) che parla di vita, un augurio che al tempo stesso offre una direzione, tra le molte direzioni possibili per ciascuna vita:

Ti auguro di vivere
senza lasciarti comprare dal denaro.
Ti auguro di vivere
senza marca, senza etichetta,
senza distinzione,
senza altro nome
che quello di uomo.

Ti auguro di vivere
senza rendere nessuno tua vittima.
Ti auguro di vivere
senza sospettare o condannare
nemmeno a fior di labbra.

Ti auguro di vivere in un mondo
dove ognuno abbia il diritto
di diventare tuo fratello
e farsi tuo prossimo.

Abbiamo realizzato anche questo template stampabile. Cliccate sull’immagine per scaricare il file PDF.

BIBLIOGRAFIA
JEAN DEBRUYNNE, Les quatre saisons d’aimer, 2010

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Kaori e il seme dell’onestà

il seme dell'onestà

KAORI E IL SEME DELL’ONESTÀ

Testo di: Alessia de Falco & Matteo Princivalle

Un tempo, in Giappone, viveva un principe che non aveva ancora trovato moglie. Suo padre era molto in pena: “Devi affrettarti, figlio mio; la mia fine si avvicina e tu diventerai imperatore. Ma potrai salire al trono soltanto se troverai moglie”.
Il principe decise di non contrariare suo padre e si mise a cercare una fanciulla adatta a diventare sua sposa. I saggi consiglieri gli suggerirono di radunare a corte tutte le ragazze del regno, perché così sarebbe stata più facile la scelta.
“Quella che colpirà il mio cuore, sarà la mia sposa”, si disse il principe.
Il giorno stabilito, giunsero a palazzo centinaia di nobili fanciulle, agghindate a festa. Tra loro c’era anche una serva, Kaori, vestita umilmente e senza alcun titolo nobiliare.
“Non andare, purtroppo non puoi competere con le altre, non è il tuo destino”, le aveva detto la madre. Ma Kaori non l’aveva ascoltata: “Anche se non sarò la prescelta, almeno vivrò con la gioia di aver incontrato il principe”.
Quando tutte le fanciulle si furono radunate, il principe lanciò una sfida: “Darò a ciascuna di voi un seme e colei che fra sei mesi mi porterà il fiore più bello sarà la mia sposa, la futura imperatrice”.

Anche Kaori prese il suo seme e lo piantò in un vaso di argilla: lo innaffiava, si accertava che non subisse sbalzi di temperatura, che ricevesse luce a sufficienza. Purtroppo tutti i suoi sforzi erano vani: passavano i mesi e dalla terra non spuntava proprio nulla. Nonostante ciò, la ragazza non demordeva e continuava a curare il semino, nella speranza che nascesse almeno germoglio.
I sei mesi trascorsero e giunse il tempo di tornare a corte a mostrare la piantina nata da ciascun seme. La madre di Kaori cercò di farla desistere: “Non andare, te ne prego. Cosa penserà il principe vedendo il tuo vaso vuoto?”.
Ma la fanciulla non si perse d’animo e la rassicurò, dicendole che sarebbe partita ugualmente, per mostrare al principe il frutto del suo amore paziente. Giunta a palazzo, Kaori vide le altre ragazze portare fiori bellissimi, colorati e dal profumo inebriante. Tutte sfilarono davanti al principe, mostrando il frutto della loro fatica.

Anche Kaori si mise davanti al principe e gli mostrò il suo vaso, pieno solo di terra nerastra. Il principe lo scrutò in silenzio e poi annunciò la sua decisione: “Questa donna che sorregge un umile vaso di terracotta, senza nessun fiore, diventerà mia moglie”.
Ci fu un gran brusio, poiché nessuno capiva le motivazioni del principe. Ma egli spiegò: “Questa donna è l’unica che ha saputo far germogliare il seme dell’onestà e quindi degna di diventare imperatrice. I semi che vi ho dato erano sterili, senza vita. Nulla sarebbe potuto crescere da essi e voi avete tentato di ingannarmi”.
Fu così che Kaori sposò il principe e con lui governò saggiamente il regno.

AUDIOFIABA

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