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Maria

Maria è un nome di origine ebraica. Deriva dal nome Maryam, che significa “principessa”. Maria è un nome che si è diffuso principalmente negli ambienti cristiani, dov’era forte il culto di Maria, madre di Gesù.

CURIOSITÀ

L’onomastico del nome Maria si festeggia il 12 settembre.
Il colore legato al nome Maria è l’azzurro.
La pietra portafortuna per Maria è lo zaffiro.

maria significato del nome

Clicca qui per scaricare la scheda del nome Maria.

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L’insegnamento più importante di Maria Montessori alle madri

Questa lettura fa parte di un ciclo di tre letture tratte da “Il bambino in famiglia”, che contengono i tre consigli di Maria Montessori alle madri (e, aggiungiamo noi, ai padri).
Vi consigliamo di leggere anche e “Assecondiamo il desiderio di attività del bambino“ e “I bambini sono straordinariamente sensibili. Non confondiamoli“.

“Cercherò di enumerare i principi che possono servire alla madre per trovare la via più giusta.
Il più importante è: rispettare tutte le forme di attività ragionevole del bambino e cercare di intenderle.

Dirò prima di tutto di una bambina di tre mesi, un piccolo essere sulla soglia della vita. Questa bambina sembrava avere appena allora scoperto le sue mani e faceva ogni sforzo per osservarle bene, ma le sue braccine erano troppo corte e, per guardarsi le mani, doveva torcere gli occhi. Era dunque in grado di compiere uno sforzo abbastanza grande. C’era tanto da osservare intorno a lei, ma soltanto le sue manine la interessavano. I suoi sforzi erano l’espressione di un istinto, che sacrificava le proprie comodità per appagare un soddisfacimento interiore. Più tardi diedero alla bambina qualcosa da tenere in mano, da toccare. Lo teneva con indifferenza. Quell’oggetto, apparentemente, non la interessava. Aprì la manina e lo lasciò cadere senza punto curarsene. Invece il suo visino prendeva un’espressione intelligente ogni volta che si sforzava di afferrare oggetti con le manine – vicini o lontani – spesso senza riuscirvi. Osservava con aria interrogativa le sue manine, come per dire: «Com’è che qualche volta riesco ad afferrarli e altre volte no?». Evidentemente il problema della funzione delle mani aveva attirato la sua attenzione. Quando poi questa piccina arrivò a sei mesi, le diedero un sonaglio con un campanellino d’argento. Glielo misero in mano, aiutandola a scuoterlo per far suonare il campanellino. Dopo qualche minuto la bambina lasciò cadere il sonaglio. Lo raccolsero e glielo diedero nuovamente, e così per molte volte. Sembrava che la bambina avesse uno scopo nel far cadere il sonaglio e nel rivolerlo subito dopo. Un giorno, mentre lo teneva ancora nella manina, cominciò, invece di aprire, come al solito, tutta la mano, a sciogliere prima un dito, poi un altro e un altro; finalmente si aprì anche l’ultimo ditino e il sonaglio cadde a terra. La piccina si guardava le dita con la più grande attenzione. Rifece il movimento continuando a guardare le sue piccole dita. Quello che l’interessava non era evidentemente il sonaglio, ma il gioco, la «funzione» delle dita che sapevano tenere quell’oggetto, e quest’osservazione le procurava gioia. Prima la bambina aveva forzato gli occhi in una posizione incomoda per poter osservare la mano, ora ne studiava il funzionamento. La madre saggia si limitava a raccogliere pazientemente e restituire il sonaglio. Prendeva parte, così, all’attività della sua figliolina e capiva la grande importanza che aveva per lei il ripetersi di questo esercizio. Questo è un piccolo fatto, che spiega i bisogni più semplici di un bambino nella sua prima età.

Forse molti dubiteranno che vi sia nei più piccini questa vita interiore. Bisogna, certo, imparare a capire il linguaggio dell’anima che si forma, come ogni altro linguaggio, se si vogliono conoscere le necessità dei piccoli esseri e persuadersi della loro importanza per la vita che si sviluppa. Il rispetto della libertà del bambino consiste nell’aiutarlo nei suoi sforzi per crescere.

Un altro caso. Un bambino di circa un anno guardava un giorno delle figure che la madre gli aveva preparato già prima ch’egli nascesse. Il piccino baciava le figure dei bimbi ed era attirato specialmente dalle figurine più piccole. Sapeva anche distinguere le immagini dei fiori e le avvicinava al visino facendo mostra di odorarle. Era chiaro che il bambino sapeva come ci si comporta coi fiori e coi bambini. Alcune persone presenti trovarono che il piccino aveva una grazietta inimitabile e si misero a ridere e cominciarono a fargli baciare e odorare una quantità di oggetti, ridendo di queste sue manifestazioni, che a loro sembravano buffe, e alle quali non annettevano nessun significato. Gli diedero dei colori da odorare e dei cuscini da baciare, ma il piccino divenne tutto confuso e dal suo visino era scomparsa quell’espressione attenta e intelligente che dianzi lo abbelliva tanto. Prima era stato tutto felice di saper distinguere una cosa dall’altra e di esplicare l’attività corrispondente: era questo un nuovo, importante acquisto della sua intelligenza, questa occupazione ragionevole l’aveva reso completamente felice. Ma egli non aveva ancora la forza interna per difendersi dalla intromissione brutale degli adulti. Così finì col baciare e odorare tutto indistintamente, ridendo nel veder ridere coloro che lo attorniavano e che gli avevano sbarrato la via per evolversi indipendentemente. Quante volte facciamo qualcosa di simile coi nostri bambini senza saperlo!”

FONTE: Maria Montessori, Il bambino in famiglia, Garzanti, 2018

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La differenza (non) sottile tra autonomia e indipendenza

Autonomia e indipendenza sono due principi educativi diversi.
L’indipendenza è quella del naufrago o dell’eremita, è la virtù di colui che riesce a sopravvivere senza legami: è la “capacità di sussistere e di operare in base a principi di assoluta autonomia” (Google, ad vocem). Indipendenza deriva dal latino in, “non” e dipendere, che indica la condizione dell’essere soggetto a qualcuno; essere indipendente significa non essere asservito ad alcuno, con un netto distacco.
L’autonomia ha un’origine differente: questa parola indica la capacità di vivere secondo le proprie leggi (dal greco antico autos, “egli stesso” e nomos, “legge”). Una persona autonoma è una persona capace di regolare se stessa, la propria affettività e la propria morale, ma non si fa menzione alla solitudine o all’isolamento dagli altri.

Educare all’autonomia significa far crescere un bambino (e, di riflesso, crescere anche noi) capace di comprendere i propri bisogni, anche in relazione agli altri. Significa rinunciare alla tentazione di modellarlo come se fosse una statua di cera e lasciarlo libero di esplorare il suo potenziale; significa dargli gli strumenti per intraprendere il proprio percorso di vita ricordando sempre l’interdipendenza: i legami ci arricchiscono e sono una condizione essenziale per vivere bene, non un limite (come, invece, è la solitudine). L’autonomia non ha bisogno di essere esasperata: emerge naturalmente quando le relazioni si consolidano. I litigi in famiglia sono un momento cruciale per lo sviluppo dell’autonomia: il bambino, infatti, sperimenta la diversità di vedute e lo scontro – civile – tra idee divergenti. In questo senso sono molto importanti anche le esperienze coi pari: la scuola, il campo estivo e la colonia. L’autonomia ha bisogno di una rete affettiva di sicurezza: si nutre di ascolto, di qualcuno capace di intuire quando abbiamo bisogno di un sostegno.

Educare un bambino all’indipendenza, diversamente, significa abituarlo a poter contare solo sulle sue forze; significa dare valore all’assenza invece che alla presenza. Significa abituare il bambino, sin da piccolo, a non creare problemi, il che si traduce naturalmente nell’avversione al rischio.
L’indipendentismo educativo trascura un fattore importante: le relazioni sociali sono un fattore cruciale, forse il più importante, per riuscire a superare autonomamente i problemi e gli ostacoli. Purtroppo, l’educazione all’indipendenza vede questi momenti come una minaccia, e preferisce eliminare direttamente l’ostacolo, con il risultato che i bambini crescono in una bolla, destinata, presto o tardi, a scoppiare.

Ricordiamoci della presenza affettiva, condizione essenziale dell’autonomia. Confondere l’autonomia con l’indipendenza può sembrare una sottigliezza linguistica, ma si tratta di una scelta di campo dagli effetti tutt’altro sottili.

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Lezione di ascolto: la Volpe e il Piccolo Principe

“Come ti senti?”. L’avete mai domandato ai bambini? E se l’avete fatto, era una domanda aperta o di circostanza? In un’analisi recente, Angela Duckworth ha intervistato migliaia di adolescenti americani: ha chiesto loro come si sentivano, chiedendo di elencare le emozioni. Successivamente, ha chiesto ai loro insegnanti di valutare lo stato emotivo dei ragazzi: la correlazione tra le emozioni reali dichiarate dai ragazzi e quelle che i loro insegnanti ritenevano essere le loro emozioni era molto bassa. In alcuni casi, si avvicinava a zero.
È molto, molto difficile immaginare come un altro si possa sentire se non glielo chiediamo in modo aperto e sincero. Spesso diamo per scontati i sentimenti di chi ci circonda, specialmente quelli dei bambini. Questo accade a scuola, ma anche in famiglia. Impariamo a chiedere di tanto in tanto “Come ti senti?”, mettendo da parte la pretesa di conoscere la risposta. Non giudichiamo: se qualcuno si sente male, il nostro compito non è indicargli la strada giusta, ma aiutarlo a trovare da sé le risorse per rialzarsi.

Il Piccolo Principe ci regala un bell’esempio di ascolto non giudicante: ad un certo punto, il Piccolo Principe scopre che esistono migliaia di rose e che la sua non è poi tanto speciale. È triste, e scoppia in lacrime. È in questo frangente che incontra la volpe. “Vieni a giocare con me, perché sono tanto triste” chiede il piccolo principe alla volpe. La volpe ascolta le sue parole senza giudicare. Non predica la felicità al Piccolo Principe, né gli impartisce lezioni di vita. Gli fa notare, però, che lei non può giocare con lui, poiché nessuno l’ha addomesticata. I due, così, si mettono a discorrere sul significato dell’addomesticamento.
È così che il Piccolo Principe si rende conto del motivo che ha reso la sua rosa così speciale. È così che ritrova se stesso, i propri sentimenti e il significato della propria vita. Durante tutto questo processo, la volpe ascolta senza intromettersi nella battaglia interiore dell’altro.
L’unico consiglio, glielo dà al momento di separarsi.
“Addio;” disse la volpe “ed ecco il mio segreto. È un segreto alquanto semplice, in verità. Non si vede bene che col cuore; l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Che è poi il cuore nascosto di questa riflessione: se vogliamo avvicinarci davvero all’anima di qualcuno, dobbiamo lasciare da parte i nostri pregiudizi, il pensiero comune e la ragione. Dobbiamo metterci in ascolto donando il nostro cuore e il nostro tempo.

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Educare alla grinta

La grinta è una componente fondamentale per il benessere: un individuo grintoso riuscirà a raggiungere i propri obiettivi affrontando i problemi e superando gli inevitabili ostacoli lungo il percorso.

Educare alla grinta

Una tra le principali sfide per un insegnante, ma anche per un genitore, è lavorare sulla motivazione del bambino, abituandolo a gestire difficoltà, imprevisti e frustrazione. Angela Duckworth, nelle sue ricerche sulla grinta, afferma che esistono due componenti su cui lavorare:

  • la capacità di affrontare le avversità
  • la passione e l’interesse verso un’attività specifica, un argomento definito, una materia.

Il bambino che ha grinta, per farla breve, non è un automa, impassibile davanti alle difficoltà: come tutti gli altri, proverà rabbia e disappunto, ma saprà reagire. E qui subentra il secondo fattore. Perché questo bambino grintoso reagisce agli imprevisti? Perché ama talmente tanto ciò che fa da voler riprovare, fino a riuscirci.
Motivazione, grinta e passione sono direttamente proporzionali. Gli studi di Angela Duckworth rappresentano la chiave di volta in questa materia: per trovare la motivazione, occorre lavorare sulla passione, indagare il carattere e scoprire i talenti che, come sappiamo, variano da individuo ad individuo (pur essendo una “dotazione” intrinseca in ciascuno di noi).

Ovviamente c’è un rovescio della medaglia: la motivazione non è un fattore stabile nel tempo e può variare, anche in relazione a specifiche circostante od eventi. Qualche tempo fa avevamo approfondito il tema dell’apatia in un articolo dedicato. In estrema sintesi, possiamo dire che l’apatia è la difficoltà ad esprimere la motivazione.
L’apatico presenta alcuni tratti tipici: assenza o scarsità di reazioni emotive, fiacchezza, scarso interesse verso il mondo e le attività quotidiane, indifferenza. Non si tratta di una condizione patologica e non richiede cure mediche o psicologiche. Tuttavia può avere profondi impatti nella vita di tutti i giorni. Ecco perché ci sembra interessante, nei paragrafi successivi, approfondire la teoria sulla Grinta di Angela Duckworth e proporvi alcune strategie per lavorare sulla motivazione.

GRINTA = motivazione + pratica + scopo + speranza

Come dicevamo in precedenza, gli studi di Angela Duckworth si sono concentrati sulla grinta e, di conseguenza, sulla motivazione: cos’è, perché ha un ruolo importante nella nostra vita, cosa la determina e come allenarla e mantenerla costante nel tempo. La studiosa, nel suo libro “Grinta, il potere della passione e della perseveranza” afferma: “Un mondo senza grinta non sarebbe un granché: non potremmo migliorarci giorno dopo giorno, stringere i denti quando viene voglia di abbandonare tutto, superare i nostri limiti e scoprire nuove, inaspettate parti di noi”.

LEGGETE ANCHE: Siete grintosi? Scopritelo con questo test

Ma come si fa ad allenare grinta e motivazione? Occorre lavorare su quattro fattori: motivazione, pratica, scopo e speranza. Si possono definire grintose e motivate solo le persone che sono in grado di mantenere la loro passione nel tempo, con determinazione e perseveranza. In altre parole, la grinta e la motivazione sono più correlate alla resistenza nel tempo che non all’intensità dello sforzo immediato.
È possibile indagare la propria motivazione, focalizzandoci su alcuni aspetti che vedremo nel paragrafo successivo. Nell’ambito dei suoi studi, Duckworth ha elaborato un questionario da auto-somministrare, volto ad analizzare il livello di grinta di ciascuno di noi. Tra i temi su cui riflettere troviamo:

  • quanto nuove idee e progetti ci distraggono o meno da quello che stiamo facendo;
  • quanto ci arrendiamo più o meno facilmente in caso di difficoltà e inconvenienti;
  • la capacità di portare sempre a termine i nostri obiettivi
  • la frequenza con cui cambiano i nostri interessi;
  • la facilità o difficoltà a rimanere concentrati su progetti e attività che richiedono diversi mesi per essere realizzati;
  • l’abitudine a prefiggersi degli obiettivi o, al contrario, a seguire gli interessi o le priorità del momento.

Se volete provare ad utilizzare il questionario, lo trovate in inglese a questo link. Tuttavia, anche solo riflettere sulle tematiche presentate poco fa, in particolare su quanto riusciamo a restare concentrati su un obiettivo, ci dà la misura della nostra grinta o motivazione: per cui il questionario può rifinire la nostra autoanalisi, ma non è strettamente necessario.
Uno dei consigli che Angela Duckworth dà a chi vuole allenare la grinta, da adulto o da bambino, è “la legge della cosa difficile” che lei ha messo in pratica sia a casa, con i suoi figli, che nel lavoro, con i suoi collaboratori. Si tratta di un allenamento molto semplice che prevede tre azioni:

  • scegliere una cosa difficile da fare, attuando una pratica deliberata;
  • si può smettere, ma solo dopo che si è arrivati ad una scadenza prefissata;
  • la cosa difficile da fare si sceglie in libertà e da soli.

Questo allenamento serve a provare, accettando anche il rischio di non riuscire, senza tuttavia abbandonare il campo, almeno fino alla deadline. Lo spiega bene Duckworth nel suo libro: “Incontriamo tutti dei limiti, non solo di talento, ma anche di opportunità. E tuttavia, più spesso di quanto pensiamo, si tratta di limiti autoimposti: un tentativo fallito e concludiamo di aver già battuto la testa contro il soffitto delle nostre possibilità, oppure facciamo appena un paio di passi e cambiamo subito direzione. In entrambi i casi non ci siamo spinti lontano quanto avremmo potuto. Avere grinta vuol dire continuare a posare un piede davanti all’altro, tenere ben ferma davanti agli occhi una meta interessante e significativa, investire ogni giorno nell’esercizio di una pratica impegnativa: avere grinta è andare sette volte al tappeto e rialzarsi in piedi otto volte”.

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LEGGETE ANCHE: La formula del successo

La resilienza

Autocontrollo

Le persone con un basso autocontrollo lo usano per uscire dalle situazioni critiche. Le persone con un autocontrollo elevato lo usano per evitare e prevenire le crisi“.
Roy Baumeister

L’autocontrollo è la capacità di regolare le emozioni, i pensieri e il comportamento per resistere agli impulsi e alle tentazioni. Un esempio famoso di autocontrollo è quello del “marshmallow test”: lo psicologo Walter Mischel pensò di testare la capacità di autocontrollo di un gruppo di bambini di quattro anni. I bambini si trovavano in una stanza e avevano di fronte a loro un marshmallow. Lo sperimentatore spiegava loro che, se avessero aspettato per 15 minuti, ne avrebbero ricevuto un altro. Le reazioni dei bambini furono diverse: alcuni di loro mangiarono il marshmallow senza pensarci due volte, altri furono in grado di aspettare un quarto d’ora e ricevettero una ricompensa maggiore.  Mischel tenne d’occhio i bambini dell’esperimento e si accorse che quelli che non avevano mangiato il marshmallow, negli anni successivi ottenevano risultati migliori a scuola.
Trentasei anni dopo, Mischel rintracciò i bambini, ormai quarantenni: quelli contraddistinti da un basso grado di autocontrollo presentavano più frequentemente problemi legati allo stress, a relazioni infelici e all’abuso di sostanze. La capacità di autocontrollarsi aveva guidato quei bambini nel corso della loro vita.
La scuola è una palestra naturale per l’autocontrollo: ai bambini si richiede di regolare un gran numero di impulsi adattandosi ad una serie di regole sociali (necessarie per una buona convivenza e per l’apprendimento). L’autocontrollo è come un muscolo: utilizzarlo comporta uno sforzo; inoltre, se lo esercitiamo costantemente, diventerà via via più forte. Possiamo allenarlo a partire dalla forza di volontà, ovvero “l’abilità di fare quello che desideriamo fare, anche se una parte di noi rema nella direzione opposta” (McGonigal).

Laboratori per educare all’autocontrollo

Scoprite i laboratori di educazione positiva che abbiamo realizzato per educare all’autocontrollo. Cliccate sui pulsanti per leggere le istruzioni, gli obiettivi didattici e per stampare le matrici.

La motivazione

Che cos’è la motivazione? In termini molto generali, la motivazione è ciò che spinge un individuo a compiere una data azione. La motivazione può essere scomposta in due macro componenti:

  • la prima è quella che possiamo definire componente energetica, ciò che attiva un’azione (funzione di attivazione)
  • la seconda è la componente direzionale, che orienta l’azione verso un dato obiettivo (funzione di orientamento).

In ambito psicologico, sono stati in molti a studiare le diverse tipologie di motivazione e le loro origini, sia biologiche che cognitive. Nell’ambito dell’Educazione Positiva, la motivazione rappresenta un fattore cruciale perché, secondo alcune ricerche, è un elemento predittivo del successo del singolo individuo.
Non vogliamo incentivare la competizione selvaggia ma, piuttosto, di valorizzare alcune componenti che esulano dal talento in un singolo ambito o materia. Possiamo dire che la motivazione è una sorta di vitamina per il talento: permette di fiorire, in quanto ci aiuta a focalizzare i nostri sforzi per raggiungere l’obiettivo.

LEGGETE ANCHE: Bisogni e desideri non sempre coincidono

COME PREFISSARSI UN OBIETTIVO

George Doran è tra gli studiosi che hanno focalizzato le loro ricerche sugli obiettivi, la loro importanza per il benessere e le strategie migliori per individuarli.
Doran ha ideato la formula SMART, un acronimo che indica quali caratteristiche che dovrebbe avere obiettivo per essere valido e motivante:

  • S (specific), specifico
  • M (measurable) misurabile
  • A (assignable), conferibile, ovvero deve essere un obiettivo di cui si può far carico una singola persona
  • R (realistic), realistico
  • T (time-related), tempo-specifico, ovvero deve essere un obiettivo il cui raggiungimento si può collocare nel tempo con certezza, anche scomponendolo in una serie di tappe.

Proviamo a portare questa formula nelle nostre vite e a farci domande specifiche sulla validità dei nostri obiettivi: si tratta di un primo passo per capire ciò che ci interessa davvero, ciò per cui vale davvero la pena impegnarsi. A questo proposito, Angela Duckworth propone un ulteriore percorso di analisi dei propri obiettivi, ripartito in tre tappe:

  • scoperta
  • sviluppo
  • approfondimento

LEGGETE ANCHE: Come scegliere i nostri obiettivi

La legge della cosa difficile in classe

Con i bambini della scuola primaria lavorare sulla formula SMART può essere complesso (al contrario, nel pianificare le lezioni e le unità di apprendimento è utilissima); il nostro suggerimento è quello di promuovere la “legge della cosa difficile” presso bambini e genitori.
Nel programma di ciascuna disciplina si incontrano argomenti più semplici accanto ad altri più difficili. Utilizziamo questi ultimi come una vera e propria palestra di grinta, incoraggiando i bambini a provare e riprovare e aiutandoli a non demordere. In questo caso, la collaborazione scuola-famiglia è determinante: accanto ad un ambiente positivo in classe, è opportuno che a casa i bambini siano spronati a raggiungere il proprio obiettivo, a riuscire nella cosa difficile.

PER EDUCARE CON LE FAVOLE:

Per aiutare i più piccoli a riconoscere le emozioni e a coltivare le buone pratiche che ci fanno stare meglio abbiamo scritto la raccolta di racconti “Cuorfolletto e i suoi amici”.

libri cuorfolletto e i suoi amici

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La cultura tecnologica ci sta distruggendo?

“Sembra che noi non riusciamo ad adattarci all’ambiente senza distruggerlo. Com’è che il nostro successo è un fallimento? Com’è che stiamo costruendo, in altre parole, un’enorme civiltà tecnologica, che sembra permettere il realizzarsi di ogni desiderio semplicemente toccando un pulsante? Eppure come nelle favole, quando i desideri sono finalmente materializzati, sono come l’oro delle fate, non sono per nulla reali.
Le ricchezze che produciamo sono effimere, e come risultato di ciò siamo frustrati, terribilmente frustrati. Riteniamo che l’unica cosa da fare è andare avanti e ottenere sempre di più. E, come risultato di ciò, tutto il nostro mondo inizia ad assomigliare alla cameretta di un bambino viziato, che ha troppi giocattoli di cui si è annoiato, quindi li getta via alla stessa velocità con la quale li ottiene, giocandoci solo per qualche minuto.

Inoltre ci dedichiamo ad una tremenda guerra alle basilari dimensione di spazio e tempo, vogliamo annullare le loro limitazioni. Vogliamo ottenere tutto il più presto possibile. Vogliamo convertire i ritmi e le capacità lavorative in soldi, con i quali ovviamente puoi comprare qualcosa, ma che non possono essere mangiati. Per poi tornare in fretta a casa dal lavoro e finalmente avere tempo per la nostra vita vera e godere di noi stessi.
Ma sapete che per la stragrande maggioranza delle persone, quello che sembra il vero scopo della vita, è di correre a casa per guardare una riproduzione elettronica della vita, che non si può toccare, che non si può odorare e non ha sapore. Potresti pensare che le persone tornano a casa per il vero scopo della vita. In una vera cultura materialistica esse tornerebbero a casa per partecipare ad un colossale banchetto oppure fare l’amore o perdersi nella musica e nella danza. Ma nulla del genere.
Sembra invece che il vero scopo sia la semplice passiva contemplazione di uno schermo: tutti sono isolati, fissi a guardare questa cosa. E non c’è più vera comunione con gli altri, per nulla. E questo isolamento delle persone in un loro mondo privato, è in realtà la creazione di una popolazione senza cervello.
È perfettamente accettata l’esibizione delle ostilità tra le persone nello sport, nelle discussioni, nei raduni pubblici, e si parla sempre di uccisioni e maltrattamenti in televisione. Mai che si vedano persone che si amano, per davvero, non per finta. Uno può trarre la conclusione che il presupposto dietro tutto questo sia che l’espressione dell’amore fisico sia molto più pericoloso dell’espressione fisica dell’odio.

E pare che una cultura basata su questi presupposti sia fondamentalmente folle. E che si dedichi, ovviamente involontariamente, non alla sopravvivenza, ma alla reale distruzione della vita”.

Alan Watts

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