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Vivere significa cercare sé stessi, dare un significato al proprio cammino

Tratto da: Jung parla: interviste e incontri. Adelphi. 1995

Mia cara amica, lei si chiede, e mi chiede, come possa la vita continuare dopo un evento così doloroso come solo può esserlo il distacco dall’amato, dalla persona cioè alla quale abbiamo unito il nostro destino e con la quale abbiamo affidato tutti noi stessi nelle mani del futuro. […] Il problema è allora questo: giunto alla fine della mia vita che cosa mi ritrovo tra le mani? Se trovo solo il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato non sarà gran cosa.

Ma potremmo trovare ben di più, ben di peggio. Ogni vita non vissuta accumula rancore verso di noi, dentro di noi: moltiplica le presenze ostili. Così diventiamo spietati con noi stessi e con gli altri. Intorno a noi non vediamo che lotta, cediamo e soccombiamo alle perfide lusinghe dell’invidia. Si dice bene che l’invidia accechi: il nostro sguardo è saturo delle vite degli altri, noi scompariamo dal nostro orizzonte. La vita che è stata perduta, all’ultimo, mi si rivolterà contro.

Perciò, l’ultima cosa che vorrei dirle, mia cara amica, è che la vita non può essere, in alcun modo, pura rassegnazione e malinconica contemplazione del passato. È nostro compito cercare quel significato che ci permette ogni volta di continuare a vivere o, se preferisce, di riprendere, a ogni passo, il nostro cammino. Tutti siamo chiamati a portare a compimento la nostra vita meglio che possiamo.

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Storia di due ciliegi innamorati

C’erano una volta due ciliegi innamorati; i loro rami, però, erano lontani e non riuscivano a toccarsi.

Un giorno, una nuvola si accorse di loro.
“Che triste destino” pensò la nuvola, “amarsi e non potersi abbracciare”.
La nuvola scoppiò a piangere e la pioggia agitò le foglie dei ciliegi; ma non fu sufficiente a far toccare i loro rami.

Anche il vento si accorse di loro.
“Che tormento” pensò la tempesta, “non poter abbracciare colui che si ama”.
Il vento soffiò con tutta la forza che aveva, ma non fu sufficiente ad far toccare i loro rami.

Anche la montagna sulla quale crescevano i ciliegi si accorse di loro.
“Poveri figli miei”, pensò la montagna: “chissà come soffrono”.
La montagna scatenò un terremoto e squarciò la terra, ma non fu sufficiente a far toccare i loro rami.

Il terremoto cessò. Fu solo allora che la nuvola, il vento e la montagna si accorsero, guardando dentro la terra spaccata, che le radici dei due ciliegi erano già intrecciate tra loro; chissà da quanto si abbracciavano così.

adattamento di: Alessia de Falco & Matteo Princivalle
Anonimo Giapponese

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La leggenda della nebbia

Tanto tempo fa, nell’anno 490, gli Unni invasero l’Italia. Il loro sovrano, Attila, saccheggiava tutti i villaggi che incontrava lungo la sua strada, rubando e uccidendo senza pietà chi provava a fermarlo.

Un mattino, alcuni bambini della città di Reggio, mentre giocavano, si accorsero che una colonna di cavalieri, armati fino ai denti, stava attraversando i campi. Erano i guerrieri di Attila, che cercavano nuove città da mettere a ferro e fuoco.

I bambini tornarono a Reggio di corsa, facendo attenzione a non farsi scoprire dagli Unni. “Aiuto! Arrivano gli Unni! Aiuto! Abbiamo visto il loro esercito che attraversava i campi.”

Gli uomini della città si radunarono, disperati. Non potevano fermare Attila; non avevano armi, né una fortezza in cui rifugiarsi: la città di Reggio era piccola, pacifica e indifesa. Il Sole, ormai, stava tramontando e c’era una sola cosa da fare: scappare nel buio, prima dell’arrivo degli Unni.

Ma il vescovo della città, San Prospero, li fermò. Era un uomo coraggioso e non aveva intenzione di abbandonare la sua città. “Chiudete le vostre case, spegnete le luci e venite con me nella chiesa che abbiamo costruito insieme” disse ai suoi concittadini. Gli uomini, le donne e i bambini di Reggio trascorsero la notte nella chiesa, pregando Dio perché li salvasse dagli Unni.

Quella notte, un velo di nebbia avvolse la città di Reggio e i campi tutt’intorno; era così fitta che non si vedeva a un palmo dal naso.

All’alba, la nebbia era ancora lì: quando la vide, Attila, si spaventò.
“In queste terre abita uno stregone” disse ai suoi soldati. “Andiamocene prima che ci colpisca con le sue maledizioni” disse agli Unni. Poi girò il suo cavallo e prese un’altra strada.

Fu così che la nebbia salvò la città di Reggio e i suoi abitanti.

Adattamento dall’agiografia di San Prospero
A cura di: Alessia de Falco & Matteo Princivalle

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Schede didattiche di geografia – classe quarta

In questa sezione potete trovare i materiali per l’insegnamento della geografia nella classe quarta della scuola primaria. Le risorse sono progettate a partire dagli obiettivi di apprendimento previsti dal MIUR; per ciascun argomento trattato abbiamo realizzato quiz interattivi, presentazioni, laboratori e schede stampabili.

Geografia per la classe quarta

Obiettivi di apprendimento

Le Indicazioni Nazionali per la Scuola dell’Infanzia e del Primo Ciclo fissano questi obiettivi di apprendimento per il ciclo primario:

  • L’alunno si orienta nello spazio circostante e sulle carte geografiche, utilizzando riferimenti topologici e punti cardinali.
  • Utilizza il linguaggio della geograficità per interpretare carte geografiche e globo terrestre, realizzare semplici schizzi cartografici e carte tematiche, progettare percorsi e itinerari di viaggio.
  • Ricava informazioni geografiche da una pluralità di fonti (cartografiche e satellitari, tecnologie digitali, fotografiche, artistico-letterarie).
  • Riconosce e denomina i principali «oggetti» geografici fisici (fiumi, monti, pianure, coste, colline, laghi, mari, oceani, ecc.).
  • Individua i caratteri che connotano i paesaggi (di montagna, collina, pianura, vulcanici, ecc.) con particolare attenzione a quelli italiani, e individua analogie e differenze con i principali paesaggi europei e di altri continenti.
  • Coglie nei paesaggi mondiali della storia le progressive trasformazioni operate dall’uomo sul paesaggio naturale. Si rende conto che lo spazio geografico è un sistema territoriale, costituito da elementi fisici e antropici legati da rapporti di connessione e/o di interdipendenza.

Schede di geografia:
🔴 Geografia – Classe prima
🟠 Geografia – Classe seconda
🟡 Geografia – Classe terza
🟢 Geografia – Classe quarta
🔵 Geografia – Classe quinta
↩️ Geografia – Tutte le schede

Discipline:
🔴 Italiano
🟠 Matematica
🟡 Inglese
🟢 Storia
🔵 Geografia
🟣 Scienze
🔴 Arte e immagine
🟠 Educazione civica
↩️ Tutte le schede

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L’abete, l’autunno e la fata Lunilda (parte seconda)

Parte seconda (Leggete qui la parte prima)

Dopo che la fata si fu allontanata, il capriolo fece capolino dalle fronde di un ginepro.
“Non bere quella pozione: non m’intendo di foglie, ma so riconoscere un inganno quando lo vedo. Lunilda è una fata beffarda e capricciosa”.
“Le fate della Luna non mentono mai!” sibilò l’abete, infuriato.
“Quello che dici è vero”, sospirò il capriolo, “ma spesso la verità è più letale delle bugie. Lunilda ha detto che le tue foglie cambieranno colore e che dopo cadrai addormentato per sempre. E se volesse avvelenarti?”.
“So ciò che ha detto” protestò l’abete.
“Fa’ come credi. La tua vita è tua soltanto”.

Mentre si allontanava, il capriolo ripensò alle sue parole.
“Non posso abbandonare quell’abete”, si disse, “Non devo; non potrei mai perdonarmelo, se dovesse capitargli qualcosa di male. È così giovane e ingenuo: anche io, quand’ero un cucciolo, avrei commesso gli stessi errori. Devo aiutarlo, come farei per uno dei miei cuccioli”.
Ma certo! So cosa potrei fare per lui”.

Il capriolo si incamminò sul sentiero che scendeva ai piedi della montagna; era coperto di sassi, che scintillavano sotto la Luna. Mentre zampettava di buona lena, il capriolo s’imbatté nella fata Lunilda: stava tornando dal giovane abete. Passando accanto a lui, la fata gli rivolse un sorriso inquietante.
“Quell’albero testardo non ti ha ascoltato, non è vero?” chiese melliflua. Il capriolo scosse la testa.
“Eppure, è così semplice: soltanto un veleno mortale può rendere gialle le foglie di un sempreverde; Prima di ucciderlo, naturalmente. Ahahah”.
La fata passò oltre, ridacchiando.

“È come pensavo. Non c’è più tempo!” sospirò il capriolo, poi prese la rincorsa e si buttò a perdifiato nel sottobosco: doveva correre se voleva arrivare in tempo.
Nel frattempo il giovane abete stava aspettando impaziente il ritorno della fata: non potete immaginare la sua gioia quando riuscì a vederla in lontananza.
“Eccomi, sono tornata” gli disse Lunilda con un piccolo inchino. Il suo faccino, bianco come il latte, scintillava sotto i raggi lunari.
“Sei davvero sicuro di voler concludere il nostro accordo?”

“Sì, sono sicuro. Dai, facciamo in fretta”.
“Quanta premura! Sono le regole: prima di offrire un incantesimo a qualcuno devo essere sicura che lo voglia davvero. Se le fate più anziane, che ci sorvegliano dalla Luna, scoprissero che ho infranto le regole, passerei dei bei guai. Quante noie, povere noi fate”.
Il vento d’autunno passò attraverso i rami dell’abete.
“Comunque è fatta, non temere”.
Lunilda prese la sua fiala di cristallo e la agitò per bene. L’abete si accorse di un’etichetta, che pendeva dalla fiala. Per un attimo fu preso dalla curiosità di sapere cosa avrebbero bevuto le sue radici, ma scacciò quei pensieri dalla testa.

La fata stava per aprire il sigillo quando fu interrotta da un grido: “Fermati! Lunilda ti vuole uccidere, testone di un’abete. Aspetta che io arrivi lassù”.
Era il capriolo, che correva a perdifiato lungo il sentiero, diretto verso di loro. Portava qualcosa sulle spalle, ma era troppo distante e l’abete non riuscì a capire di cosa si trattasse.
“Perché aspettare”, intervenne Lunilda, “lui ha già preso la sua decisione, non intrometterti nei nostri affari”.

Il capriolo accelerò la sua corsa e, per paura di non arrivare in tempo, spiccò un salto poderoso, per raggiungere la radura in cui si trovavano l’abete e la fata.
Quando arrivò ai piedi dell’albero aveva le zampe coperte di graffi ed era senza fiato.
“La pozione di Lunilda è un veleno mortale. Chiedile di mostrarti l’etichetta. Ma anch’io ho una soluzione per te: sono andato ai piedi della montagna e ho raccolto tutte le foglie che ho trovato; ce ne sono di rosse, di gialle e arancioni. Domattina chiederemo agli scoiattoli di appenderle sui tuoi aghi e così anche tu potrai festeggiare come gli altri alberi”.

Questa volta l’abete fu convinto: l’inganno di Lunilda fu svelato e lui rifiutò la sua pozione mortale. Il piano del capriolo si rivelò un successo e dal giorno dopo, anche il sempreverde si unì alla festa degli alberi che perdevano le foglie; ogni giorno, il vento portava via qualcuna delle sue foglie colorate e quando arrivò l’inverno, l’abete tornò alla sua forma. Gli altri alberi, invece, rimasero spogli e si addormentarono, pronti a rinascere con la nuova stagione.

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L’abete, l’autunno e la fata Lunilda

Parte prima (Leggete qui la parte seconda)

Nel bosco ai piedi della montagna, un giovane abete affondava le sue radici all’ombra di un pino, antichissimo, che lo aveva visto nascere e che lo aveva cresciuto come un figlio.
Un giorno il pino prese da parte l’abete e sussurrò: “Giovanotto, è giunto il mio tempo; trascorrerò un ultimo anno qui accanto a te, poi me ne andrò: il mio corpo diventerà legna per il falegname e il vento gelato spargerà le mie pigne, i miei semi e la mia vita. Quando arriverà quel giorno, diventerai il custode di questa radura. Sono certo.

Il tempo trascorse e le parole del vecchio pino divennero realtà: l’albero seccò, il vento fece cadere e rotolare le sue pigne e sul finire di ottobre il falegname tagliò i resti del suo corpo e li portò via. Fu allora che il giovane abete si accorse del bosco che si estendeva sotto di lui, ai piedi della montagna; fino a quel giorno aveva visto soltanto le fronde nodose del vecchio pino, che lo avvolgevano come una siepe, proteggendolo dal mondo di fuori.
“E quelli, cosa sono?” si domandò l’abete guardando di sotto: nel bosco c’erano alberi di tutti i colori: gialli, rossi, arancioni e nocciola.
“Voglio essere anche io come loro” pensò, e il suo pensiero si trasformò in un desiderio ardente e scoppiettante, come un caminetto d’autunno.

L’abete chiamò un capriolo e lo inviò come messaggero, chiedendogli di riferire questo messaggio: “Qual è il segreto dei vostri colori? Anch’io desidero con tutto me stesso diventare come voi”.
Il capriolo tornò poco dopo, con la risposta: “Non c’è alcun segreto, giovane abete. Tra poco arriverà l’inverno e le nostre foglie cadranno. Così festeggiamo, e le lanciamo come coriandoli, perché è meglio danzare e festeggiare che piangere. Ma tu sei sempreverde: non perderai mai le tue belle foglie verdi, per cent’anni e anche di più. Sei così fortunato”.

Quando udì queste parole, l’abete andò su tutte le furie. “Quegli alberi sono più belli di me e così mi sbeffeggiano! Il segreto per cambiare il colore delle proprie foglie esiste, ne sono sicuro”.
Domandò al capriolo, ma non era un esperto: sapeva dove trovare un ciuffo d’erba tenera anche sotto il ghiaccio e la neve, ma non s’intendeva di alberi, foglie e colori. Quella notte, l’abete chiamò la fata Lunilda, che passeggiava nel bosco al chiaro di Luna.

“Ti prego, nobile fata, fa’ che le mie foglie diventino gialle e marroni come quelle degli alberi là sotto”.
La fata guardò l’abete come si guarda un elefantino di porcellana dipinto.
“Vuoi diventare come loro? Ne sei proprio sicuro?”
“Sì: è il mio desiderio più grande”.
Lunilda estrasse dal suo mantello soffice e nero una fiala, ripiena di una pozione verde brillante.
“Se verserò questa pozione tra le tue radici, i tuoi aghi diventeranno come le loro foglie; così potrai festeggiare insieme a loro , prima di cadere per sempre nel sonno. Hai mezz’ora per decidere: è il tempo che serve a ogni fata per concludere un accordo” disse solenne Lunilda, poi tornò a passeggiare recitando le sue formule alla Luna.

Cliccate qui per leggere il seguito…

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