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Borracce: una soluzione ecologica, ma attenti alla pulizia

Tra le cause più importanti dell’inquinamento da plastica vi è il consumo smodato di acqua in bottiglia: dalla scuola ai viaggi di lavoro, è facile consumare bottiglie su bottiglie di plastica: in questo modo, però, produciamo una mole di rifiuti impressionante. L’alternativa è utilizzare una borraccia: a scuola, all’università e quando siamo in viaggio, avere con noi una borraccia ci permette di bere senza produrre rifiuti.
La borraccia-mania sta dilagando: scuole, università ed enti pubblici nei mesi scorsi hanno distribuito borracce ai propri studenti e ai propri dipendenti, nel tentativo di ridurre la quantità di plastica consumata. Si tratta di un’ottima abitudine, ma non dobbiamo sottovalutare la pulizia quotidiana.

APPROFONDIMENTO: Usiamo la borraccia. Un piccolo gesto per salvare l’ambiente

MANUTENZIONE DELLA BORRACCIA

Al rientro da scuola, la borraccia deve essere sciacquata con cura, eliminando i residui d’acqua e pulendo l’interno con un po’ di sapone per piatti e uno scovolino. Lo scovolino è essenziale: permette di raggiungere e pulire il fondo della borraccia, che altrimenti sarebbe impossibile pulire a dovere. Dopo una pulizia accurata e un risciacquo, la borraccia dovrà essere messa ad asciugare con l’apertura rivolta verso il basso. Anche il tappo e la filettatura andranno puliti con cura. Questa semplice pratica vi aiuterà a mantenere la borraccia pulita e ad evitare la formazione di muffe e cattivi odori.

La pulizia quotidiana della borraccia, tuttavia, non previene in maniera assoluta la formazione di batteri. Per sterilizzare la borraccia, si possono utilizzare appositi disinfettanti, come quelli che si impiegano per sterilizzare i biberon e gli accessori per neonati. La procedura è la stessa che impiegheremmo per sterilizzare un biberon: si scioglie la soluzione disinfettante in acqua, si immerge il biberon e si lascia in ammollo per il tempo indicato sulla confezione del disinfettante, poi si risciacqua e si asciuga. Non occorre sterilizzare ogni giorno la borraccia: una volta al mese, accanto alla pulizia quotidiana, è più che sufficiente. In alternativa è possibile sterilizzare la borraccia in acqua bollente o nel forno a microonde, utilizzando il vapore.
Se i vostri bambini utilizzano quotidianamente la borraccia e avete dei dubbi riguardo all’igienizzazione, vi raccomandiamo di consultare il vostro pediatra.

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Le trappole mentali che impediscono l’ottimismo

In questo articolo affronteremo le trappole del pensiero, ovvero quei meccanismi che possono ostacolare il raggiungimento del benessere e la costruzione di relazioni positive.
Partiamo da una premessa: gli ostacoli possono essere dentro di noi o intorno a noi. Noi oggi esamineremo la prima categoria di ostacoli, quelli creati dalla nostra mente. Ovviamente esistono anche ostacoli esterni, quali ad esempio i giudizi altrui, le opinioni, le convenzioni sociali. Imparare a governare le nostre trappole mentali ci permette di guardare con occhi diversi anche il mondo che ci circonda. Prevenire le trappole mentali ha un benefico effetto sul nostro pensiero positivo e sulla nostra resilienza.

PERCHÉ LAVORARE SUI NOSTRI PENSIERI PER AUMENTARE LA RESILIENZA

Lo psicologo statunitense Albert Ellis ha elaborato il Modello ABC, dove:

  • A sta per Activating Event, l’evento scatenante, ciò che ci accade;
  • B sta per Belief, il modo in cui interpretiamo la situazione;
  • C sta per Consequences, le nostre emozioni e reazioni di fronte all’evento.

Ellis sostiene che ciò che determina le nostre emozioni e le nostre reazioni non è l’evento in sé, ma il modo in cui proviamo a dare una spiegazione a quell’evento, le nostre credenze e i nostri pensieri. Ecco perché è così importante imparare ad ascoltarci e anche a lavorare sul nostro modo di affrontare la realtà e di darne una lettura costruttiva e positiva.
Sicuramente non possiamo avere il controllo su ciò che accade intorno a noi, ma possiamo migliorare il nostro modo di reagire agli eventi, lavorando sull’interpretazione che ne diamo. Ora, come dicevamo in precedenza, spesso i nostri pensieri sono influenzati da distorsioni cognitive, delle vere e proprie trappole mentali. Di seguito entriamo in dettaglio e le spieghiamo meglio.

CINQUE TRAPPOLE MENTALI CHE TUTTI DOVREMMO CONOSCERE

La prima delle trappole mentali di cui vogliamo parlarvi è denominata Mind Reading; in italiano abbiamo deciso di tradurre coniando un neologismo, il Leggi Mente. Il Leggi Mente è colui che pensa di sapere cosa sta pensando il suo interlocutore a proposito di ciò che accade. E, solitamente, il Leggi Mente è convinto del cattivo giudizio altrui. Facciamo un esempio: stiamo tardando ad ultimare un lavoro ed il nostro primo pensiero è: “Ecco, il capo penserà che sono un inetto”. Magari invece il capo, vedendo la situazione, può chiedersi perché c’è un ritardo e come intervenire, non necessariamente esprimendo un giudizio negativo. Il grande errore che facciamo, in questi casi, è di non chiedere al nostro interlocutore cosa pensa. In questo modo, eviteremmo fraintendimenti. Sfortunatamente, spesso il Mind Reading impedisce la comunicazione e innesca un circolo di autocommiserazione che ci porta a dare un giudizio sempre più negativo su noi stessi.
Per superare questa trappola mentale, possiamo imporci la Regola delle Tre domande:

  • a noi stessi: sei sicuro che l’altro lo pensi veramente?
  • al nostro interlocutore: cosa pensi?
  • ad entrambi: come possiamo fare per risolvere?

Passiamo ora alla seconda trappola mentale, denominata Me Trap, la Trappola del “Me stesso”. In questo caso, assumiamo che la responsabilità di tutto ciò che accade sia nostra, ci sentiamo in colpa, impotenti ed un po’ disillusi. Che fare? Nel paragrafo successivo vedrete la Teoria sugli Stili di Attribuzione di Martin Seligman: essa rappresenta un valido ausilio per superare questa trappola mentale. Per ora, ricordate, ogni volta che iniziate a pensare che è colpa vostra, di farvi questa domanda:

  • dove ho sbagliato davvero?

La risposta deve essere molto specifica e razionale. Vi accorgerete, focalizzandovi sull’evento, che, nel ripercorrere i passaggi e descrivere i dettagli del fatto, molta della responsabilità non è vostra. Fatta questa cernita, focalizzatevi sulle vostre responsabilità e chiedetevi come si può cambiare.
La terza trappola mentale è contrapposta al Me Trap e viene denominata in inglese Them Trap, la Trappola degli Altri. In questo caso, ci convinciamo che la responsabilità dei fatti sia degli altri e che noi in un certo qual modo siamo solo vittime.
Anche in questo caso, va fatto un esercizio di analisi, per superare la trappola mentale: è vero che il fatto è responsabilità di? Perché? Provate a motivare razionalmente e vi accorgerete che, man mano che proseguite nel ragionamento, riuscirete a dare un quadro più equilibrato della situazione.Può essere utili, in questi casi, fare due chiacchiere con un amico, in modo tale da avere anche un parere esterno.
La quarta trappola mentale viene denominata Catastrophizing, in italiano Pensiero Catastrofico. Si tratta della distorsione che mettiamo in atto quando iniziato a rimuginare sugli eventi, facendoci avvolgere da una spirale di negatività. Che fare in questi casi? Il miglior consiglio è descrivere l’evento dicendo:

  • cosa è successo?
  • posso cambiare le cose?
  • se sì, come?
  • se non posso cambiare le cose adesso, che lezione ho appreso? Cosa posso fare per cambiare in futuro usando la mia esperienza, anche se negativa?

L’ultima trappola di cui parleremo è definita in inglese Helplessness Thinking Trap, la Trappola dell’Impotenza Appresa. E’ il caso in cui ci auto-convinciamo che l’evento accadutoci sia fuori controllo e che quindi non possiamo fare niente per cambiare le cose. Pensiamo che la nostra vita non possa cambiare e ci rassegniamo, smettendo di reagire.
Nel caso della Helplessness Thinking Trap, facile a dirsi, ma difficile a farsi, occorre lavorare sulla motivazione. La domanda fondamentale da porci è: Sarei contento se le cose cambiassero? Se sì, cosa sono disposto a fare per cambiare? Per tutte le Trappole Mentali citate, un valido ausilio viene dalla Psicologia Positiva e dall’allenamento all’ottimismo. Di seguito approfondiamo in che modo è possibile intervenire sul nostro modo di affrontare la realtà.

ESERCIZI PRATICI: COME SFIDARE I PENSIERI CATASTROFICI

Per prima cosa, muniamoci di block notes e penna. Proviamo ad immaginare a qualcosa che è andato storto durante la nostra giornata. Poi focalizziamoci e poniamoci le seguenti domande:

  • Qual è lo scenario peggiore? Cosa potrebbe succedere?
  • Qual è invece lo scenario migliore? In questo caso, cosa potrebbe succedere?
  • Quale dei due scenari è più probabile?
  • Come possiamo cambiare le cose?
  • Quali strategie possiamo adottare per migliorare la situazione?

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Trasformiamo le lezioni frontali: meno monologhi e più dialoghi

La lezione frontale è il principale capro espiatorio della scuola italiana. L’immagine dei bambini incollati ai banchi come prigionieri e tormentati dall’insegnante di turno che vomita la sua lezione come un fiume di parole ricorre nei discorsi, pubblici e privati, della maggior parte del mondo dell’educazione.
Il pedagogista Daniele Novara l’ha definita come una “pratica inerziale” di cui la scuola dovrebbe liberarsi; ben prima di lui, Giovanni Gentile sosteneva che “non ogni maestro che siede sulla cattedra insegna”. Per riuscirci, secondo Gentile, l’insegnante doveva essere anche educatore, rinunciando alla sua individualità e a legare il proprio spirito a quello degli studenti, seduti sui banchi. Non si contano, per numero e ferocia, le stoccate inferte all’ora di lezione.

Eppure, il problema non è affatto la lezione frontale, ma il modo in cui viene impostata. Nella concezione classica, la lezione è incarnata dal dialogo, lo strumento più potente per sprigionare il nostro potenziale umano. Perché proprio il dialogo? Dovremmo chiederlo a Socrate; probabilmente, perché l’umanità è comunità, e pertanto ha bisogno di strumenti corali, di tecniche interattive, dove l’interazione non è quella tra un dito e uno schermo, bensì tra due menti umane.
Ma torniamo alla lezione frontale: il problema non è la lezione in sé, ma il vuoto dialogico che caratterizza troppe lezioni. La lezione frontale, nella maggior parte dei casi, è un monologo autoreferenziale. Quello che va detto – e che spesso viene trascurato dai critici – è che l’efficacia delle lezioni frontali aumenta moltissimo se adottiamo una serie di piccoli accorgimenti didattici.
Ad esempio, riportando al centro l’idea di dialogo. La narrazione non deve procedere a senso unico, dall’insegnante ai ragazzi: deve essere interattiva.
Ma l’interazione, in un luogo come la scuola, non si può lasciare al caos (con buona pace di chi vorrebbe una scuola “socratica”): purtroppo o per fortuna, la scuola ha dei tempi rigidi e piuttosto limitati, che vanno rispettati. Questo significa che ogni lezione frontale, per evitare la dispersione, va “progettata e costruita” a partire da uno schema, una mappa concettuale. Può essere utile disporre di una mappa, realizzata dall’insegnante, che riassume lo svolgimento della lezione e i concetti salienti. La stessa mappa diventerà uno strumento-guida per studiare.

APPROFONDIMENTO: Mappe concettuali. Cosa sono e come si costruiscono

Le domande sono uno strumento efficace per generare interazioni: predisporre un “question time” (5 o 10 minuti per rispondere alle domande degli alunni, anche a costo di divagare un poco) per le domande maieutiche degli studenti non è mai una perdita di tempo. Le domande a risposta diretta – quelle attraverso cui un insegnante verifica nell’immediato se la classe sta seguendo e ha compreso la sua spiegazione – si possono formulare ricorrendo alle carte delle risposte (una tecnica d’importazione, che in America ha riscosso un certo successo).

APPROFONDIMENTO: Le carte delle risposte. Cosa sono e come utilizzarle

Infine, la lezione dovrebbe dare qualcosa in più rispetto al semplice libro di testo. Secondo Allan Bloom “l’apprendimento sui libri è la maggior parte di ciò che un docente può dare”. Ed ecco un terzo criterio per valutare l’efficacia di una lezione (accanto alla sua “mappatura” e all’interattività): questa lezione lascerà ai miei studenti qualcosa in più rispetto al semplice libro di testo?
Questa domanda può trarre in inganno, ma è fortemente rivelatrice: un insegnante che si limiti ad esporre ciò che è contenuto in un libro, potrebbe essere sostituito con semplicità da un robot (alcuni studi in proposito rivelano addirittura che lezioni interattive condotte dall’intelligenza artificiale, esclusivamente su schermo, è più efficace della maggioranza delle nostre lezioni frontali).
In sintesi, una buona lezione dovrebbe:

  • essere pianificata con attenzione, seguendo una vera e propria mappa concettuale
  • essere interattiva, offrendo a chi la segue un certo numero di occasioni per verificare quello che sta imparando (utilizzando, ad esempio, le carte delle risposte);
  • essere dialogica, offrendo uno spazio-tempo per le domande, anche quelle non strettamente legate all’oggetto dell’apprendimento (si può prevedere un question time);
  • offrire qualcosa di più rispetto al semplice libro di testo.

Una lezione frontale che soddisfi questi quattro requisiti non avrà nulla da invidiare, in quanto ad efficacia, alle tecniche innovative più in voga.

FONTI

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Comunicazione efficace: la doppia P

Quando parliamo di comunicazione verbale, è abbastanza intuitivo capire a cosa ci riferiamo: parole, discorsi, informazioni. Il modo in cui diciamo le cose racconta molto di noi. Di questo ad esempio abbiamo parlato nella seconda lezione dedicata al “Non basta dire bravo/brava, ma …”.
La comunicazione non verbale comprende tutti i messaggi comunicativi che non esprimiamo attraverso le parole: gesti, espressioni, tono di voce. Se volete approfondire il tema della comunicazione non verbale, abbiamo scritto un saggio ad hoc che trovate a questo link. Si tratta di una componente fondamentale della comunicazione: per comunicare efficacemente, serve coerenza tra comunicazione verbale e non verbale. Non serve a nulla dire “Ti ascolto”, se poi continuo a leggere il giornale. Nell’ambito della psicologia positiva, è interessante a questo proposito esaminare il modello Active-Constructive Responding. Analizzando le risposte alle buone notizie, i ricercatori hanno evidenziato quattro schemi di risposta:

  • Attiva e costruttiva
    È il caso in cui si risponde con entusiasmo all’interlocutore, facendo trasparire il nostro supporto.
  • Attiva e distruttiva
    In questo caso, di fronte alla notizia, cerchiamo di monopolizzare la comunicazione, sottolineando i problemi e gli aspetti negativi derivanti dalla buona notizia.
  • Passiva e costruttiva
    Si tratta di una risposta priva di energia, in cui il nostro supporto verso l’interlocutore è minimo.
  • Passiva e distruttiva
    È il caso in cui ignoriamo il nostro interlocutore, facendogli capire che non siamo interessati a quello che ha da dire.

Perché prendere in esame la reazione ad una buona notizia? Pensateci: è la più grande palestra di allenamento del linguaggio positivo. È psicologicamente più facile reagire con entusiasmo a una buona notizia; ma, se ciò non accade, e la nostra comunicazione ricade in una tipologia diversa da “attiva e costruttiva”, forse dovremmo fermarci e chiederci:

  • perché lo sto facendo?
  • ho voglia di cambiare?
  • come posso cambiare?
  • cosa può succedere se cambio tipologia di risposta?

Rispondere a queste domande è il primo esercizio di oggi. Il secondo è provare individuare quante situazioni analoghe a quella analizzata dai ricercatori ci si presentano nel corso della settimana e rispondere alle seguenti domande:

  • Quante volte ho ricevuto una buona notizia questa settimana?ù
  • Quante volte ho usato una risposta “attiva e costruttiva”?
  • Che tono di voce ho usato? Che postura ho assunto? Guardavo in faccia il mio interlocutore? Sorridevo?

Provate a ripetere questo esercizio per una/due settimane ed analizzare cosa è successo. Sicuramente vi siete focalizzati sul vostro modo di comunicare verbalmente (che cosa ho detto) e non verbalmente (che cosa ho fatto).

In questo articolo affronteremo una tecnica che potete utilizzare per comunicare in modo efficace. Con Doppia P intendiamo il pre e il post di un intervento educativo, ovvero quello che nelle precedenti lezioni abbiamo denominato, seguendo lo schema di Alan Kazdin, Prompt (istruzione) e Praise (lode). Ciò che abbiamo detto sull’allineamento della comunicazione verbale e non verbale è fondamentale per spiegare chiaramente ciò che vogliamo e dare rinforzi positivi efficaci se accade ciò che desideriamo. Torniamo all’esempio del disordine che ormai ci perseguita dall’inizio del corso: dobbiamo convincere il nostro bambino a riordinare la sua stanza.

Come possiamo fare per instaurare una comunicazione efficace:

  • Prompt: “Per favore, raccogli i giochi dal pavimento della camera e mettili nella cassapanca prima di cena”. Abbiamo usato il “per favore”, abbiamo specificato l’obiettivo e abbiamo dato una deadline. Può funzionare, ma … Com’è stata la nostra comunicazione non verbale? Se eravamo motivati e sereni, probabilmente abbiamo usato un tono di voce calmo e guardato il bambino. Se eravamo esasperati, magari abbiamo usato il “Per favore”, ma con una voce stridula e spazientita. In quale dei due casi la comunicazione è allineata ed efficace?
  • La stessa cosa vale per il “Praise”, il nostro “Bravo/a!”: lo avete detto con entusiasmo, magari dando una carezza o battendo il cinque al bambino o eravate impegnati a fare altro e avete liquidato la faccenda come una cosa in meno a cui pensare?

Sembra banale, ma ciò che fate ha ripercussioni incredibili sul modo in cui viene inteso ciò che dite. Non stiamo criticando nessuno, non vogliamo mandare in crisi i lettori, ma iniziare a pensare alla combinazione di dire e fare è il primo passo per indirizzare il bambino creando intorno a lui un ambiente positivo.

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I genitori sono lasciati soli: ecco perché l’educazione fallisce

Il ruolo dei genitori è fondamentale per quanto riguarda la prevenzione e ancor più per predire il successo scolastico dei figli. Elementi come lo stile educativo della madre e del padre, l’ambiente socio-culturale di provenienza, il livello di coesione familiare e gli atteggiamenti educativi permettono di predire il livello di apprendimento di un bambino nel 70% dei casi (lo hanno rivelato i ricercatori Pourtois e Desmet in un noto studio del 1994). Oggi imputiamo i risultati scadenti nelle prove standardizzate alla scuola, ma si trascura un dato fondamentale: la famiglia influenza il grado di apprendimento dei figli in misura maggiore della scuola. L’educazione famigliare costituisce le uniche fondamenta sulle quali l’istruzione scolastica può prosperare.

Eppure, i genitori vengono lasciati soli. Nel nostro paese i genitori non sono aiutati ad acquisire consapevolezza e a formarsi. Non hanno nessun professionista con cui confrontarsi nel momento del bisogno e la manchevolezza delle istituzioni è notevole. Alle famiglie rimangono solo tre strade da percorrere: rivolgersi agli istituti religiosi, chiedere aiuto ai nonni e agli altri parenti o intraprendere percorsi di consulenza pedagogica e educativa a pagamento (il cui costo, solitamente, è insostenibile per una famiglia media).
Interventi precoci e continuativi nel campo dell’educazione familiare, potrebbero rispondere in modo particolarmente efficace ai bisogni della nostra società: dalla qualità dell’apprendimento alle relazioni tra i membri della famiglia, fino a limitare l’esposizione alle tecnologie digitali e a costruire reti che permettano ai bambini di interagire con i propri coetanei.  Quest’educazione familiare dovrebbe partire dall’analisi di ciascun genitore, dei suoi bisogni e delle sue aspettative, della sua personalità e dei suoi obiettivi. Offrendo alcuni spunti operativi per la gestione dei bambini, supervisionando le pratiche educative e valorizzando il genitore, il professionista dell’educazione potrebbe rivoluzionare la vita in famiglia.
L’obiettivo non è quello di costruire un “genitore perfetto”, ma un genitore riflessivo, un “adulto che, partendo dalla propria operatività, quindi dalle interazioni concrete con gli altri membri della famiglia, dall’esperienza quotidiana di eventi e conversazioni che producono effetti, elabora un pensiero sul proprio ruolo di educatore, sui desideri e sui bisogni che lo fondono, sui vincoli e le possibilità che (in quella specifica famiglia) incontra” (Laura Formenti, 2001).

Negli ultimi anni, internet ha offerto alle famiglie un numero impressionante di risorse educative “fai da te”, indicazioni, linee guida e proposte pedagogiche; la qualità non è sempre elevata, ma è possibile reperire un gran numero di risorse sufficientemente autorevoli, che però necessitano di una cornice organica. Quella cornice è l’educazione famigliare, che ad oggi è la grande assente nella nostra società.
Se vogliamo aiutare davvero i genitori – risolvendo le loro difficoltà, quelle dei bambini e quelle della scuola – dobbiamo impegnarci in un percorso di costruzione di questo campo, dobbiamo elaborare un modello che possa aiutare davvero i genitori e renderlo accessibile a tutti.

FONTI

  • F. Cambi et al., Le professionalità educative. Tipologia, interpretazione e modello, Carocci, 2003

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Diagnosi DSA? Aspettate la seconda

Gli screening precoci possono prevenire i Disturbi Specifici dell’Apprendimento? Ha senso sottoporre i bambini a test fin dalla scuola dell’infanzia per prevenire e trattare i potenziali DSA in modo precoce? Secondo noi no. Questo parere, naturalmente, non si basa sulla nostra pratica educativa, ma sulle direttive emanate dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi.
Esiste un documento, recepito dal Consiglio Nazionale nella seduta del 26 Febbraio 2016, con deliberazione n° 10/16 (qui è possibile leggere il documento integrale, 72 pagine), che individua le buone pratiche professionali per l’individuazione e il trattamento dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento. Ecco tre quesiti ed altrettante risposte particolarmente significative:

Quando può essere effettuata una diagnosi di DSA?
Per la Dislessia, Disgrafia e Disortografia è possibile effettuare una diagnosi di DSA (e quindi rilasciare la relativa certificazione) dalla fine della classe seconda della scuola primaria. Per la Discalculia è necessario attendere la fine della classe terza, come già suggeriva la CC-2007 e conferma il PARCC-2011 (quesito A5.C), soprattutto per evitare l’individuazione di falsi positivi.

Può essere anticipata la diagnosi di DSA?
Prima della fine della classe seconda primaria l’elevata variabilità interindividuale nei tempi di acquisizione non consente una applicazione dei valori normativi di riferimento che abbia le stesse caratteristiche di attendibilità
riscontrate ad età superiori (CC-2007). Per quanto riguarda Dislessia e Disortografia il PARCC scoraggia l’anticipazione della diagnosi, a causa della mancanza di prove diagnostiche e/o di screening sufficientemente predittive (PARCC-2011, Quesito A5.A).

È corretto parlare di prevenzione nell’ambito dei DSA?
Essendo i DSA disturbi di origine neurobiologica, parlare di prevenzione non è corretto e può costituire una forzatura. È possibile però, attraverso un’individuazione precoce del disturbo, intervenire tempestivamente e
migliorare non solo la prognosi, ma anche prevenire gli effetti del disturbo sulle variabili psicologiche (emotive, motivazionali, ecc.), riducendo il rischio di psicopatologia associata nonché di drop-out scolastico.

Alla luce di queste righe, l’unica “medicina” valida sin dalla prima infanzia è l’educazione, impartita con amore e ferma credenza nei propri valori familiari e scolastici. L’educazione, grande assente nel contesto famigliare – ad oggi i genitori nel nostro paese non godono di alcun supporto educativo al di là della scuola – potrebbe rivelarsi un fattore determinante per supportare bambini e genitori nella crescita.

FONTI

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