L’inglese si impara a scuola? A giudicare dai risultati dei test Invalsi, no. Infatti, solo il 51% degli studenti al 13 anno di scuola raggiunge il livello B2 per quanto riguarda la lettura e comprensione di un testo in inglese. Ma è nelle prove di ascolto che tocchiamo il fondo: solo il 35% degli studenti raggiunge il B2.
E uno studente su quattro si ferma al B1, vale a dire un livello di competenza basso se confrontato col numero di ore di insegnamento dedicate all’inglese. Nelle regioni del Sud, le percentuali sono ancora più sconfortanti.
L’inglese è fondamentale, tanto per il mondo del lavoro quanto per il lifelong learning: la maggior parte dei corsi di aggiornamento e approfondimento online (compresi i MOOC, grande opportunità di apprendimento che il nostro paese ancora non sfrutta appieno) sono erogati proprio in lingua inglese. Non conoscere questa lingua significa precludersi opportunità di carriera importanti, ma sopratutto ci costringe a coltivare una visione limitata della conoscenza: tante pubblicazioni innovative nel campo dell’educazione e della didattica sono tuttora non tradotte in italiano.
Dove potremmo migliorare? La presenza di insegnanti madrelingua potrebbe risolvere gran parte del problema, o perlomeno riequilibrare il deficit nella comprensione dell’inglese (che, inevitabilmente, si ripercuote sulla capacità di parlarlo). Purtroppo, una didattica eccessivamente focalizzata sui libri di testo e sulla grammatica, ma carente di esercizi di ascolto – come quella in atto nel nostro paese – non funziona.
Un elemento cruciale è legato alla formazione continua degli insegnanti di inglese non madrelingua: la loro conoscenza dell’inglese, scritto e parlato, è sufficiente a raggiungere un livello C2 (l’equivalente del Certificate of Proficiency in English)? Introdurre il possesso del livello C2 come soglia di sbarramento per accedere all’insegnamento dell’inglese, insieme ad un buon programma di formazione continua, potrebbe essere una soluzione. Purtroppo, la sua applicazione è decisamente irrealistica.
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Perché è così difficile crescere un figlio? Chiunque si sia trovata/o a dover educare un bambino, si sarà accorta/o di quanto questo compito sia difficile.
La risposta si trova in uno dei meccanismi che governano la nostra mente, ovvero il negativity bias (in italiano potremmo tradurlo come “fallacia del negativo”). In pratica: quando ci troviamo di fronte a due stimoli, uno positivo e uno negativo, la nostra attenzione è catturata da quello negativo.
Ad esempio: se uno studente, durante un diverbio, insulta un compagno, questo gesto negativo attirerà la reazione dell’insegnante. Tuttavia, tutte le occasioni in cui i ragazzi si parlano in modo garbato e gentile, passano quasi sempre inosservate (o comunque vengono trascurate in percentuale molto, molto più alta degli eventi negativi). Lo stesso accade a casa: un bambino che rovescia un bicchiere viene immediatamente ripreso, eppure nessuno gli ha espresso il suo apprezzamento in tutte le occasioni in cui ha sorretto il bicchiere correttamente.
Questo effetto è presente in tutte le attività umane: l’informazione (le buone notizie passano quasi sempre inosservate, a discapito del polverone sollevato da quelle cattive), l’economia e la finanza e, come nel nostro caso, l’educazione.
Il negativity bias ci deriva probabilmente dai nostri antenati preistorici, insieme all’ansia e alla paura: concentrare la propria attenzione su un animale selvatico e non sulla bellezza dei fiori e del paesaggio poteva salvare una vita (e certamente lo ha fatto!). Eppure, questo retaggio primitivo, rende il nostro compito di genitori, di insegnanti e di educatori molto più faticoso.
Ma come superarlo? Questa è la vera domanda: come possiamo superare questo negativity bias? La risposta è: allenandoci! La forma di allenamento più importante è – sorpresa! – l’apprezzamento. Apprezzare ciò che va bene ed è bello, infatti, è il comportamento opposto rispetto a sottolineare ciò che non va. Proviamo a riconoscere i comportamenti “corretti” dei nostri bambini e a dimostrare loro il nostro apprezzamento. Ecco qualche esempio:
“Bravissima! Come sei stata gentile con tuo fratello”.
“Ottimo lavoro! Ti sei impegnato molto per risolvere questo problema”.
“Brava/o! Ti sei lavata/o i denti in modo impeccabile”.
L’apprezzamento, per essere efficace, deve contenere tre elementi: un’esortazione piena di entusiasmo (Bravo! Bravissima! Complimenti! Ottimo lavoro! etc.), il motivo dell’esortazione (ovvero il “buon comportamento”) e infine, una dimostrazione fisica di affetto, come una carezza, un abbraccio o una pacca sulla spalla.
Prova anche tu ad allenarti ad apprezzare i piccoli successi quotidiani dei tuoi bambini o dei tuoi studenti: le giornate prenderanno una piega migliore e lavorare sul loro comportamento sarà più facile.
Come tutte le nostre abitudini, anche il negativity bias si può contrastare con l’allenamento quotidiano, fino a fare dell’apprezzamento uno dei nostri punti di forza. Prova a darti un’obiettivo quotidiano di apprezzamenti da collezionare.
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Qual è il significato della parola resilienza applicato alla psicologia? La resilienza è la capacità di resistere alle esperienze emotive negative in modo flessibile e orientato al cambiamento, ma anche la capacità di crescere attraverso le sfide. In realtà, il termine resilienza è una sorta di ombrello: ci sono tante definizioni di resilienza nella letteratura scientifica, e ciascuna di esse coglie uno o più aspetti di essa. Ecco alcuni degli aspetti principali che formano la resilienza:
Aspetti biologici, ovvero tutti i fattori ereditari sui quali – al momento – non possiamo intervenire
Autoconsapevolezza, ovvero la capacità di riconoscere i propri stati emotivi in modo efficace (l’autoconsapevolezza è un aspetto fondamentale dell’intelligenza emotiva, complementare all’empatia)
Autoregolazione, ovvero la capacità non solo di riconoscere i nostri stati d’animo, ma di reagire in un certo modo ad essi
Agilità mentale, ovvero la capacità di guardare ai problemi da più punti di vista diversi (l’agilità mentale coincide in parte con il pensiero laterale e in parte con la Prospettiva, uno dei 24 punti di forza secondo le scienze del carattere).
Ottimismo, ovvero la credenza profonda in un futuro positivo. L’ottimismo è un fattore cruciale per la resilienza perché determina il nostro modo di guardare alle sfide (e possiamo impararlo, al 100%)
Autoefficacia, ovvero la fiducia in se stessi e nelle proprie abilità per poter superare una sfida
Interconnessione, ovvero una rete sociale capace di dare aiuto e sostegno nei momenti difficili.
Spiritualità, ovvero la credenza in qualcosa di più grande e profondo di noi. La religione è un tipico esempio di spiritualità.
Istituzioni positive, ovvero un ambiente (casa, famiglia, istituzioni sociali) orientato in senso positivo, orientato alla crescita degli individui. Chi cresce all’interno di istituzioni positive è abituato fin da piccolo a reagire alle sfide e alle difficoltà; le istituzioni positive amplificano tutti i fattori che abbiamo indicato sopra.
FILASTROCCA RESILIENTE Alessia de Falco e Matteo Princivale Non ti arrendere ce la puoi fare: ogni sconfitta ha tanto da insegnare. Sii coraggioso va’ oltre il cancello: Quel che è difficile è ciò che è più bello.
IL SIGNIFICATO DI QUESTI VERSI
Coraggio ed ottimismo servono oggi più che mai. In un mondo sempre più complesso, chiamati ad affrontare sfide più grandi di noi, non possiamo fare a meno della resilienza. Concetto complesso la resilienza, o meglio, costrutto. Infatti, essere resilienti è molto più del semplice “superare gli ostacoli”. La resilienza richiede flessibilità, capacità di cogliere e governare il cambiamento, capacità di scomporre e risolvere i problemi, speranza ed ottimismo. In questi versi abbiamo sintetizzato, a misura di bambino, due elementi essenziali della resilienza. Il primo è la capacità di superare gli ostacoli, imparando da essi e dalle sconfitte che la vita ci riserva. Le persone resilienti accettano il fatto che alcuni eventi siano immutabili, al di fuori del loro controllo. Tuttavia, non si perdono d’animo: anche di fronte ad una sciagura, si sforzano di individuare le azioni in loro potere per cambiare – anche se in piccola parte – le cose, poi agiscono.
Ma soprattutto, le persone resilienti non temono le difficoltà. Riconoscono che la sconfitta è una parte della vita e non la evitano. Ciò che è difficile è bello, si diceva nell’Antica Grecia. La massima è tuttora valida. Solo chi riesce ad uscire dalla propria zona di comfort, per addentrarsi nella foresta delle sfide e degli imprevisti può trovare autentica soddisfazione: è la soddisfazione di chi ha visto, di chi ha imparato, di chi si è confrontato con se stesso ed è riuscito ad andare oltre le proprie paure. Ma come possiamo educare i bambini al coraggio? Primo: insegnando loro che ogni sconfitta è preziosa. Secondo: educandoli al piacere della scoperta e della sfida. Sfida che, ricordiamolo, non è contro il prossimo ma contro i propri limiti. “Quel che è difficile è ciò che è più bello”. La nostra filastrocca si conclude così; questi versi sono il nostro auspicio, il nostro messaggio: ci piacerebbe vederli stampati ed affissi sulle porte delle camerette, nelle aule, nei campi sportivi. Ci piacerebbe vedere i bambini che si addentrano nelle sfide quotidiane con la consapevolezza che nessuno li giudicherà, ma che cresceranno. Ci piacerebbe che tutti gli educatori si facessero portatori di questa pillola di coraggio. In fondo, chi si imbarca nella missione titanica di crescere un figlio o di formare un’intera classe, non può pensare diversamente!
SIGNIFICATO ED ETIMOLOGIA DEL TERMINE RESILIENZA
Resilienza deriva dal latino “resilire”, che significa rimbalzare. risalire. Questo termine deriva dalle scienze dei materiali: in origine erano definiti “resilienti” quei metalli che, se venivano sottoposti a una forza, si piegavano senza rompersi; l’aggettivo “resiliente” veniva dato anche ai tessuti che, dopo essere stati tirati, tornavano alla loro forma originaria, senza deformarsi. Da qui alla psicologia il passo è breve: gli psicologi del XX secolo, alle prese con i traumi e la fragilità umana, hanno coniato il termine resilienza per indicare la capacità di fronteggiare le difficoltà senza spezzarsi.
RESILIENZA IN PILLOLE
Non passò neppure un istante e Alice si introdusse nella tana dietro al Coniglio, ma come sarebbe potuta poi uscire di là fu una cosa cui in quel momento non pensò minimamente. La tana del coniglio andava diritta per un certo pezzo come una galleria, poi volgeva improvvisamente verso il basso, così improvvisaménte che Alice non ebbe il tempo di pensare di fermarsi prima di accorgersi che stava precipitando giù per un pozzo molto profondo.
L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie
Quante volte vi è capitato di ritrovarvi come Alice a precipitare metaforicamente in un pozzo molto buio e profondo? Un lutto, un improvviso cambiamento o, più in generale, un evento che ha scosso la vostra sfera emotiva: vi sarete sentiti schiacciati, persi, addolorati. Ma poi siete riusciti a risalire, a vedere nuovamente la luce, miracolosamente più forti.
COS’È LA RESILIENZA?
Se ciò è accaduto, probabilmente avete sperimentato il tema che approfondiamo in questo articolo: la resilienza, ovvero la capacità di non farsi piegare da un ostacolo, trovando la forza e la volontà di andare avanti.
Immaginatevi come palazzi antisismici che affrontano un terremoto, oscillando, anche violentemente, senza crollare. Lo stesso capita alla mente umana quando reagisce con resilienza: ci si piega al dolore, ma non ci si spezza. Nonostante il trauma, generalmente si attinge al proprio bagaglio di forze interiori, a volte anche inconsapevolmente, per superare le avversità.
E’ un concetto importantissimo per ciascun individuo, nel suo percorso di crescita personale e nelle relazioni con gli altri, in ambito familiare e non. E’ importante approfondire questo tema perché, sin dalla più tenera età, saper affrontare gli ostacoli che la vita ci pone significa riuscire a vivere in maniera più equilibrata e serena. La famiglia riveste un ruolo cruciale nell’allenamento di questa risorsa, una sorta di trampolino di partenza da cui spiccare il volo per la vita. Per camminare poi, crescendo, sulle proprie gambe.
Per fare tutto questo, sfatiamo un mito: nessun trauma potrà mai essere positivo, sarebbe ipocrita considerare tale una tragedia, un forte dolore, una malattia. Ciò che è positivo è la possibilità di poter riemergere cambiati, più forti, anche dopo le esperienze più dolorose: sopravvissuti, pronti ad amare la vita ancora di più. Ecco cosa significa vivere con resilienza.
Di seguito vogliamo offrirvi un breve approfondimento su questa tematica, con l’obiettivo di avere una panoramica teorica sul concetto e su come può essere allenato nella nostra quotidianità, anche attraverso momenti ludici. Il passo successivo saràportare questi insegnamenti in famiglia, sperimentando insieme il Gio-Coaching.
LA RESILIENZA PSICOLOGICA
La resilienza psicologica è una caratteristica fondamentale per riconquistare un benessere temporaneamente perduto: significa trovare la forza per “persistere” nel proprio obiettivo, nell’accettare la sfida costituita dagli eventi negativi che si paleseranno lungo il percorso. Una persona resiliente ha imparato ad attingere dal bagaglio delle proprie risorse emotive, tirando fuori al momento opportuno, proprio come dal cilindro di un abile mago, ciò che serve a guardare il futuro senza lasciarsi sopraffare.
Ecco un piccolo identikit della persona resiliente:
è ottimista e crede che i momenti negativi siano temporanei:
è determinata e nutre una forte motivazione che la spinge a perseguire gli obiettivi prefissati;
non perde mai la speranza, anche dopo una sconfitta.
E VOI, SIETE RESILIENTI?
Per misurare la vostra resilienza provate con sincerità a rispondere a queste domande, facendo riferimento ad esperienze vissute e a come vi siete comportati. E’ un piccolo test per capire come lavorare su se stessi, prima ancora che insieme ai vostri bambini:
siete in grado di affrontare le difficoltà senza perdervi d’animo?
è stato utile confrontarvi con altre persone, condividere il vostro disagio?
cosa vi ha permesso di guardare con fiducia al futuro?
quali sono le forze, gli insegnamenti, tratti dagli ostacoli che avete affrontato?
sapreste essere d’aiuto ad altri, fornendo assistenza nei momenti difficili?
State tranquilli, è molto probabile che, nel rispondere, scopriate di non essere poi così resilienti. Però c’è una buona notizia per voi: secondo la psicologia, è possibile allenare la propria resilienza con l’esperienza. Non è esaustivo, ma ci sono tre mosse che possono rifocalizzarci:
imparare ad accettare le sfide
trovare i nostri fattori di protezione, gli elementi a cui appellarsi in caso di difficoltà
diventare consapevoli dei propri limiti e delle proprie potenzialità: le forze verranno in soccorso delle debolezze.
Queste sono linee guida teoriche, che però possono essere allenate giornalmente portando un po’ di resilienza nei nostri gesti quotidiani. Di seguito una serie di piccoli esercizi da sperimentare su se stessi e da riproporre in famiglia, prima di passare al gio-coaching sulla resilienza.
MINI-KIT DI ALLENAMENTO: RESILIENTI IN 3 MOSSE
Stretching mentale: senza flessibilità non esiste resilienza. Maggiore è la capacità di adattamento cognitivo, più grande sarà la tolleranza alla frustrazione. Allenatevi un po’ per giorno ad essere morbidi, a prendere le cose per quel che sono.
Team working:chi fa da sé fa per tre, ma in tre è decisamente meglio. Non rinunciate mai a una bella chiacchierata, a due parole di conforto: sono la medicina migliore. Condividere le nostre esperienze con gli altri, senza diventare tossici, è un prezioso nutrimento dal punto di vista affettivo e psicologico.
Yoga dell’anima: l’autoconsapevolezza, la capacità di capire davvero ciò che sentiamo, aiuta a far fronte al dolore in maniera più serena. Non significa soffrire meno, questo non accadrà mai. Vuol dire accettare ogni sfumatura delle emozioni, senza reprimerle, semplicemente lasciandole defluire.
RESILIENZA IN FAMIGLIA
Finora abbiamo affrontato il tema della resilienza nella dimensione individuale, parlando di ciò che ciascuno di noi è chiamato ad affrontare. Esiste tuttavia anche un’accezione più ampia di questo tema che possiamo definire resilienza familiare. Di cosa si tratta? Significa inventare insieme strategie di adattamento, in modo tale che la famiglia si trasformi in un punto di sostegno. Immaginatevi di coltivare l’ambiente familiare come un piccolo orto, alimentando interessi e relazioni interpersonali, coltivando il dialogo, prendendosi cura di se stessi e degli altri membri del team.
Ecco alcuni esempi concreti:
Imparare ad ascoltarsi: difficilmente se non conosco i miei bisogni, troverò energie fisiche e psicologiche necessarie a sostenere gli altri
Prendersi del tempo per sè stessi e recuperare energie: serve a pianificare più serenamente le attività
Non farsi sopraffare dal senso di colpa
Coinvolgere tutti i membri della famiglia: dite sempre la verità, fare “taglia fuori” non aiuta nessuno
Chiaramente bisogna far attenzione a non iper-responsabilizzare i più piccoli, ma è importante comunque che sappiano se una persona a cui sono legati ha bisogno di un po’ di sostegno in più
PER EDUCARE CON LE FAVOLE:
Per aiutare i più piccoli a riconoscere le emozioni e a coltivare le buone pratiche che ci fanno stare meglio abbiamo scritto la raccolta di racconti “Cuorfolletto e i suoi amici”.
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Uno degli aspetti più curiosi e affascinanti dell’infanzia è il pensiero magico. I bambini, infatti, utilizzano un pensiero assai diverso da quello degli adulti, che è di stampo logico. Scopriamo insieme il pensiero magico infantile e le sue caratteristiche.
Le caratteristiche del pensiero magico
La caratteristica più importante del pensiero magico dei bambini è la credenza che le persone, gli animali e gli oggetti intorno al bambino condividano i suoi pensieri e i suoi stati d’animo.
I bambini, nella fase del pensiero magico, non riescono a differenziare correttamente la propria realtà (composta da percezioni, stati d’animo e pensieri) da quella degli altri.
Il pensiero magico, inoltre, è un pensiero animistico: gli oggetti inanimati vengono trattati alla stregua di esseri viventi. Così, può capitare di sentire una bambina o un bambino parlare ai suoi giocattoli.
Infine, il pensiero magico dei bambini non ricorre ai vincoli di spazio e di tempo: spazio e tempo sono due dimensioni indefinite, prive di una coerenza interna.
L’età del pensiero magico
Qual è l’età del pensiero magico? Fino a che età questo prevale nei bambini? Secondo i principali studi condotti dagli psicologi dell’infanzia e dello sviluppo, il pensiero magico prevale fino ai sette anni. Con l’ingresso a scuola, cede gradualmente il posto al pensiero logico razionale e al pensiero morale tipici dell’età adulta.
Il pensiero magico “muore” con l’infanzia?
Possiamo affermare che il pensiero magico muoia durante il passaggio dall’infanzia alla preadolescenza? In realtà no: anche se nei ragazzi si consolida il pensiero logico razionale, quello che li accompagnerà per tutto il corso della vita, il pensiero magico rimane in vita.
A cosa serve il pensiero magico
Perché i bambini ricorrono al pensiero magico se distorce a tal punto la realtà? Non si tratta di un “nemico” da debellare al più presto? Secondo gli studiosi, il pensiero magico riveste alcune funzioni molto importanti per il bambino. La prima, nonché la più importante, è quella di difenderlo dall’ansia: il bambino non dispone dei meccanismi logici necessari per comprendere e prevedere gli eventi nel mondo. Questi gli accadono, in modo imprevedibile e inaspettato, stravolgendo la sua vita. Grazie al pensiero magico il bambino riesce a formulare spiegazioni creative, capaci di rassicurarlo. Se non ci fosse questo “salvavita”, il bambino si troverebbe assolutamente inerme e sottoposto ad un’ansia fortissima.
Il pensiero magico e il futuro
Il pensiero magico, inoltre, viene utilizzato in modo propiziatorio: proprio come gli uomini dell’antichità facevano sacrifici agli dei nella speranza di ottenere un raccolto abbondante, un buon bottino o di vincere una battaglia, allo stesso modo i bambini, attraverso il loro pensiero magico, possono mettere in atto piccoli rituali, con la speranza di modificare il corso degli eventi futuri secondo i propri desideri. Questa funzione offre due benefici: fa sperimentare al bambino un senso di sicurezza e lo aiuta a costruire i meccanismi della volontà e del desiderio.
Come comportarsi
Come dovremmo comportarci quando i bambini ci manifestano il loro pensiero magico? Dobbiamo incentivarli o riportarli coi piedi per terra? Esiste un limite alla fantasticheria? Queste domande sono importanti e, probabilmente, chiunque si sia trovata/o a contatto con un bambino se le è poste.
Un buon punto di vista educativo è il seguente: rispettiamo le differenze e attendiamo con pazienza. L’adulto e il bambino non differiscono tra loro esclusivamente per la stazza e per la quantità di conoscenze possedute. Il sistema-bambino è completamente differente.
La metafora della farfalla
Un cucciolo di farfalla non è una farfallina, ma un bruco. Un bruco! Il bruco è un insetto completamente diverso dalla farfalla, sua forma adulta. È radicalmente diverso. Con i bambini accade lo stesso: il pensiero magico che li muove è per noi difficile da comprendere e molto, molto diverso dal nostro pensiero.
Una farfalla non potrebbe mai pretendere che i suoi bruchi la seguano in volo. Allo stesso modo, noi non possiamo in alcun modo pretendere che i bambini seguano il nostro pensiero logico. Non è nelle loro corde, non è alla loro portata. Un giorno, tra dieci anni, potranno farlo, ma adesso no.
E allora, dobbiamo portare pazienza e fare un esercizio di rispetto: anche se i bambini pensano in modo diverso dal nostro, il loro cervello emotivo è agile e frizzante. Se li rispettiamo e se ci sforziamo di guardare il mondo dalla loro prospettiva, lo capiranno e lo apprezzeranno.
Un buon esercizio è proprio quello della farfalla: immaginiamo di essere delle farfalle, e di avere vicino a noi dei bruchi meravigliosi e variopinti; come potremmo interagire con loro?
In sintesi
Il pensiero infantile è molto diverso da quello degli adulti: è un pensiero magico, che si contrappone al nostro pensiero logico razionale;
Il pensiero magico è animistico e distorce lo spazio e il tempo: i bambini trattano gli oggetti inanimati alla stregua di persone e credono che gli altri possano conoscere i loro pensieri;
Il pensiero magico aiuta lo sviluppo del bambino, proteggendolo dall’ansia;
Il pensiero magico è dominante fino ai sette anni di età poi, gradualmente, viene sostituito dal pensiero logico razionale;
Il pensiero magico non muore con l’infanzia; anche in età adulta abbiamo i nostri “momenti magici”;
Il pensiero magico non va represso, ma compreso e rispettato.
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L’ottimismo è il sale della vita, ma anche dell’educazione: secondo la scienza, gli studenti ottimisti ottengono risultati migliori (a parità di QI) di quelli pessimisti; inoltre, l’ottimismo è un fattore protettivo molto importante per combattere la depressione.
La media degli studenti ottimisti Lo psicologo e ricercatore Christopher Peterson ha condotto uno studio per verificare se l’ottimismo, in qualche misura, influenzava i risultati scolastici degli studenti. Alla fine del primo anno di scuola superiore, gli studenti con uno stile di pensiero fortemente ottimistico dimostravano una media superiore a quella degli studenti con uno stile di pensiero pessimistico o fortemente pessimistico. Una possibile spiegazione è il ruolo dell’ottimismo per gestire al meglio i grandi cambiamenti che intercorrono nella transizione alla scuola media: nuovi insegnanti, maggior rigore accademico, nuovi compagni, etc. A partire dallo studio di Peterson, sono stati indagati altri ambiti per capire il ruolo dell’ottimismo nelle performance: in campo sportivo, per esempio, gli atleti con uno stile di pensiero ottimistico tendono a gestire la pressione e lo stress in modo molto migliore degli atleti con uno stile di pensiero pessimistico.
Ottimismo e depressione L’ottimismo aiuta a vivere meglio e contrasta la depressione. In uno studio condotto da un gruppo di ricercatori della University of Pennsylvania, è stato individuato un gruppo di studenti a rischio di depressione (gli studenti che presentavano già uno o più sintomi della depressione sono stati considerati “a rischio”). Nella maggior parte dei casi, ad angosciare gli studenti a rischio era una situazione difficile a casa: litigi, mancanza di dialogo e unità tra i genitori, mancanza di affetto. I ricercatori hanno diviso questi ragazzi in due gruppi: a un gruppo, hanno insegnato l’ottimismo. L’ottimismo si può insegnare spiegando i pensieri alla base di esso e attraverso dei set di esercizi utili ad influenzare quei pensieri. I ragazzi sono stati seguiti nel tempo ed è emerso che coloro i quali avevano “imparato l’ottimismo” presentavano meno sintomi depressivi, erano più felici e credevano in un futuro più brillante.
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A settembre, tutti gli studenti delle scuole elementari e medie di Milano riceveranno una borraccia di alluminio: così il Comune di Milano intende condurre la lotta alla plastica.
Eliminare la plastica
Abbiamo già parlato in numerose occasioni dell’importanza di ridurre il consumo delle bottiglie d’acqua in plastica e dell’alternativa ecologica: la borraccia. Si può usare a scuola, durante le escursioni, in campeggio e perfino in ufficio. Le borracce in alluminio erano già state distribuite gratuitamente in varie scuole italiane e agli studenti dell’Università Roma Tre. È bello vedere che anche un grande comune, come Milano, ha deciso di compiere un passo deciso nella lotta all’inquinamento da plastica.
Sempre a Milano, al termine dello scorso anno scolastico, erano state distribuite gratuitamente delle borracce di alluminio a oltre 1200 studenti impegnati in progetti di educazione ambientale.
Le bottiglie di plastica costituiscono una fonte di inquinamento importante: un costo per chi le acquista, un danno per l’ambiente. La soluzione è bere l’acqua del sindaco, che non ha nulla da invidiare alle acque dei distributori. La scelta della borraccia, infatti, è anche economica.
Educazione ambientale
Accanto alla distribuzione delle borracce, è fondamentale perseguire un programma ambizioso di educazione ambientale. Proprio a partire dall’ambiente, infatti, possiamo costruire stili di vita più sostenibili e caratterizzati da un maggiore benessere.
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