Sviluppare un’attitudine positiva al cambiamento è fondamentale per vivere al meglio il proprio ruolo di genitori e di educatori.
Ma come possiamo tradurre questo proposito in pratica? Per cominciare, dobbiamo individuare le leve specifiche sulle quali andremo ad agire. Lo psicologo John Krumboltz ha individuato cinque competenze chiave per poter esplorare il mondo e per riuscire a migliorare attraverso il cambiamento. Queste sono:
Curiosità: la curiosità (in psicologia si ritrova anche con il termine di apertura mentale) è una dimensione centrale per vivere il cambiamento come un’opportunità di crescita; la curiosità è legata alla capacità di esplorazione.
Resilienza: è la capacità di fronteggiare ostacoli e cadute con successo.
Flessibilità: è la capacità di cambiare abitudini, comportamenti e credenze in base alle circostanze.
Ottimismo: è la capacità di vedere nel futuro un’opportunità realizzabile.
Assunzione di rischio:è la capacità di agire in un contesto incerto e imprevedibile; l’assunzione di rischio non corrisponde alla temerarietà e all’imprudenza, ma alla capacità di agire anche nei contesti di incertezza.
Possiamo chiamare queste cinque competenze “Chiavi del cambiamento“. Possiamo allenarle? Certamente sì. Come tutti gli altri “muscoli” della nostra mente, anche queste competenze si possono allenare. Un ottimo esercizio è coltivare il cambiamento intenzionale. Sono cambiamenti intenzionali tutti quei processi di cambiamento che scegliamo di percorrere e sui quali esercitiamo la nostra volontà (iniziare un corso sportivo, aumentare le ore di sonno, trascorrere più tempo all’aria aperta, etc.). Apportare dei piccoli cambiamenti intenzionali modificando la routine quotidiana è l’esercizio che ti suggeriamo per mettere in pratica tutto quello che abbiamo detto.
Per monitorare questi cambiamenti – evitando l’effetto “buoni propositi messi da parte dopo due giorni” ti suggeriamo di utilizzare il quaderno della crescita e il calendario degli obiettivi. Se vuoi un esempio concreto (e benefico) puoi cominciare ad allenarti con la nostra “lumaca del movimento“.
Praticare il sentiero del cambiamento intenzionale ti garantirà un ulteriore beneficio: potrai sperimentare sulla tua pelle il ciclo emotivo del cambiamento (un ciclo fatto di alti e bassi!). In questo modo, potrai allenarti a gestire le tue emozioni dirigendole verso il tuo obiettivo.
Ecco un esempio di cattive abitudini famigliari che puoi modificare, esercitandoti a padroneggiare l’arte del cambiamento (cliccando sui link qui sotto puoi approfondire ciascun tema):
Laudadio A., Mancuso S., Manuale di psicologia positiva, Franco Angeli, 2015
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Cosa fanno i tuoi bambini prima di andare a nanna? A questa domanda ha provato a rispondere BookTrust, con una rilevazione condotta nell’ambito della campagna Pyjamarama. I risultati sono agghiaccianti:
il 26% dei genitori intervistati utilizza un assistente vocale per far leggere una storia ai propri bambini; la favola della buonanotte, così, viene raccontata da Google, Siri, Alexa e altri
il 65% dei genitori mette in mano ai bambini telefoni, tablet e altri schermi digitali, fino all’ora della nanna.
il 48% dei genitori vorrebbe leggere un libro ai propri bambini, ma di questi meno di un terzo ci riesce (e infatti, la percentuale complessiva dei genitori-lettori è intorno al 10%).
Insomma, i genitori che leggono un libro insieme ai propri bimbi, o che raccontano loro una storia, sono ormai una minoranza. Questo succede nonostante tutte le evidenze scientifiche relative all’utilità della lettura condivisa, della lettura ad alta voce e della lettura in generale. Ma perché i genitori non dedicano un po’ di tempo ai propri figli prima della nanna? Qualcuno rientra a casa dal lavoro troppo tardi; altri, così hanno risposto, sono “troppo impegnati”.
Lo abbiamo detto e ripetuto più volte: questo approccio non funziona. L’abuso tecnologico, specialmente nelle ore serali, porta con sé conseguenze ben più serie, che vanno dalla dipendenza patologica ai disturbi del sonno. Pensare che un assistente vocale possa rimpiazzare il calore di una mamma o di un papà lettore dovrebbe portarci a riprendere il discorso sulla tecnologia: esiste tecnologia utile e tecnologia inutile. Ma se un dispositivo ci allontana dalle persone che amiamo e ci spinge all’isolamento, non è semplicemente inutile; è dannoso.
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Abbiamo già spiegato l’importanza di lavorare sui punti di forza invece di focalizzarsi sulle debolezze. Tuttavia, qualcuno potrebbe ancora obiettare: perché cambiare? Perché affidarsi all’incertezza e all’imprevisto? La risposta è semplice: il cambiamento è uno degli strumenti migliori per lavorare sui propri punti di forza.
Com’è possibile? Te lo spiegheremo utilizzando una teoria scientifica: stiamo parlando della teoria della casualità pianificata ( formulata nel 1999 dagli psicologi Krumboltz, Mitchell e Levin).
Questa teoria è stata portata con successo in molte grandi aziende americane, generando una piccola rivoluzione nel mondo del counselling professionale e dello sviluppo della carriera. Secondo la teoria della casualità pianificata, l’esplorazione genera eventi casuali che potrebbero rendere migliore la vita degli individui e le loro competenze; questi eventi casuali potrebbero inoltre rendere capaci gli individui di afferrare opportunità altrimenti precluse. Questa teoria è fondamentale per la crescita personale; infatti, ci dice, in parole povere, che dal cambiamento potrebbe nascere qualcosa di buono (che non potremmo ottenere altrimenti) e che tutti noi possiamo farci “esploratori”, ovvero ricercatori del cambiamento. Si tratta di una formulazione scientifica di quella che viene definita “serendipità“.
Quando parliamo di sviluppare i punti di forza, ci riferiamo ad una serie di competenze utili per la vita personale e professionale. Questi punti di forza sono stati definiti in modi diversi nelle diverse epoche dell’uomo: gli antichi greci le chiamavano aretè, i cristiani virtù, alcune teorie psicologiche le hanno poi definite competenze, prima che gli psicologi positivi rispolverassero l’antica concezione di virtù. Il problema delle virtù/competenze è che non sempre abbiamo a disposizione un percorso lineare per svilupparle; questo è dovuto al fatto che le nostre scuole non insegnano la virtù direttamente e neppure la società lo fa. Sono fondamentali per vivere in modo felice e rispettoso, eppure vengono tenute ai margini della società.
La verità è che tutti noi, a livello intuitivo, comprendiamo l’importanza delle virtù, eppure le diamo per scontate. Di solito, rimangono al livello dei “buoni propositi”.
Se vogliamo far sì che le nostre virtù uscano da quel limbo mentale e divengano atto, il cambiamento è la strada più semplice ed efficace.
Nella prossima lezione scopriremo quali competenze sono necessarie per riuscire ad affrontare il cambiamento con successo.
FONTI
Laudadio A., Mancuso S., Manuale di psicologia positiva, Franco Angeli, 2015
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Se decidiamo di cambiare noi stessi dobbiamo scegliere un approccio, una strada da seguire. Quello che suggeriamo noi è basato sui talenti: ciascuno di noi ha dei punti di forza, a volte senza saperlo. Se scegliamo di cambiare utilizzando un approccio basato sui talenti, il nostro primo obiettivo (1) sarà quello di scovare queste virtù, mentre il secondo (2) sarà quello di lavorare attivamente su di essi.
Perché proponiamo un approccio basato sui punti di forza invece di correggere le debolezze? Esiste un simpatico esperimento scientifico al riguardo. Nel 1925 (molto tempo prima che si sviluppassero le moderne scuole di pensiero psicologiche e che la didattica venisse affrontata da pedagogisti e filosofi con l’attenzione scientifica che riceve oggi) la ricercatrice Elizabeth Hurlock condusse uno studio su un gruppo di studenti. Lo studio aveva l’obiettivo di spingere questi studenti a migliorare il proprio rendimento scolastico e le performance nei test. Alcuni tra questi studenti ricevettero degli incoraggiamenti positivi e furono invitati ad impegnarsi per fare sempre meglio, a partire dai propri punti di forza; altri, invece, ricevettero delle critiche riguardo agli errori che avevano commesso nei primi test. Nel 1925 l’educazione era ancora estremamente rigida e tradizionalista: criticare aspramente gli errori degli studenti era la prassi nella maggior parte delle scuole americane e nel mondo. Dallo studio emersero i dati seguenti: tra gli studenti i cui errori erano stati criticati, il 19% migliorò il proprio rendimento nel corso dei test successivi. Un risultato lievemente positivo. Tra gli studenti che erano stati incoraggiati a far meglio e a lavorare sulle proprie potenzialità, il numero di coloro che riuscirono a migliorare il proprio rendimento fu del 71%! Un risultato sorprendente. Questo esperimento non è un punto isolato: numerose ricerche – anche negli ultimi anni – hanno confermato che gli approcci basati sui punti di forza sono molto più efficaci di quelli che hanno come obiettivo la correzione dei punti di debolezza. Ma qual è il segreto di questa scelta? Partire dai punti di forza permette di mettersi alla prova rispettando il senso di autoefficacia e l’autostima: così facendo, agiremo con una forte motivazione di base. Non dobbiamo mai dimenticare che nei processi di apprendimento le emozioni e l’intelligenza emotiva giocano un ruolo fondamentale.
È possibile lavorare sui punti di forza dei bambini in età prescolare (3-6 anni)? Se lo sono chiesto Anat Shoshani e Lior Schwarz, ricercatori della Baruch Ichver School of Psychology (con sede a Israele), che hanno tentato di mettere a punto un questionario per individuare i punti di forza nei più piccoli. Gli studi scientifici, infatti, hanno rivelato che lavorare sui propri punti di forza (al momento ne sono stati identificati 24, comuni a tutte le culture del mondo) è il modo migliore per vivere bene (e per ottenere risultati). Uno strumento capace di individuare i punti di forza sin dalla più tenera età – la scala attualmente in uso è disponibile a partire dai 10 anni – potrebbe aiutare migliaia di genitori, educatori ed insegnanti nello svolgimento della propria missione. La classificazione dei punti di forza non è una “schedatura”: diversamente dai test standardizzati che misurano il raggiungimento di un determinato obiettivo (come avviene, ad esempio, per i test Invalsi), non esistono punti di forza giusti e sbagliati, né esiste una combinazione vincente. Individuare i punti di forza di un bambino ha un unico obiettivo: permettere a lui, alla sua famiglia e ai suoi insegnanti di massimizzare i punti di forza della propria personalità, utilizzandola nella vita quotidiana (una delle tecniche più semplici e sperimentate è la conversazione centrata sui punti di forza). Ciò che emerge dagli studi, infatti, è che gli studenti che imparano ad utilizzare le proprie forze imparano meglio e sono molto più motivati rispetto agli studenti che tentano di correggere i propri difetti e di livellare le proprie debolezze, con ripercussioni positive sull’autostima e sul senso di autoefficacia. Il test che dovrebbe riuscire a individuare i punti di forza dei bambini in età prescolare è il Character Strenght Inventory for Early Childhood (CSI-EC), un questionario composto da 96 item (il termine tecnico con cui si indicano le domande nei questionari psicosociali) la cui compilazione spetta ai genitori. Al momento manca uno studio longitudinale: è essenziale comprendere se, nel passaggio dalla prima infanzia alla preadolescenza il carattere dei bambini si mantiene coerente o se alcuni elementi possono mutare. Inoltre, il fatto che siano i genitori a compilare il questionario mette a rischio la correttezza dei risultati: infatti, i genitori potrebbero aver sviluppato una visione “viziata” del carattere dei propri figli. Tuttavia, i primi test su un campione di oltre 2000 bambini hanno ottenuto risultati in linea con quelli degli studi sugli adulti, specialmente per quanto riguarda le correlazioni tra alcuni punti di forza e il benessere. Infatti, i bambini in cui prevalgono interessi intellettuali intensi (ovvero sono forti nell’area della conoscenza), un senso di spiritualità e di ricerca di uno scopo nella vita e i bambini che sono forti nel campo delle relazioni sociali, si sono rivelati – a detta dei genitori – bambini sereni e caratterialmente equilibrati. Si tratta di un ottimo segnale per le scienze dell’educazione: infatti, a partire da questo test, le scienze del carattere e lo sviluppo dei punti di forza, che al momento riguardano prevalentemente gli adulti e gli studenti adolescenti, potrebbero essere estesi anche ai più piccoli, con l’aspettativa di ottimi risultati educativi.
PER EDUCARE CON LE FAVOLE:
Per aiutare i più piccoli a riconoscere le emozioni e a coltivare le buone pratiche che ci fanno stare meglio abbiamo scritto la raccolta di racconti “Cuorfolletto e i suoi amici”.
BIBLIOGRAFIA Hurlock, E. B. (1925). An Evaluation of Certain Incentives Used in School Work. Journal of Educational Psychology, 16(3), 145-159 Laudadio A., Mancuso S., Manuale di psicologia positiva, Franco Angeli, 2015 Anat Shoshani, Lior Shwartz. (2018) From Character Strengths to Children’s Well-Being: Development and Validation of the Character Strengths Inventory for Elementary School Children. Frontiers in Psychology 9. Shoshani, Anat. (2018). Young children’s character strengths and emotional well-being: Development of the Character Strengths Inventory for Early Childhood (CSI-EC). The Journal of Positive Psychology. 14. 1-17.
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Robert Fulghum, “All I need to know I learned in kindergarde” (Tutto ciò che mi serve sapere l’ho imparato al’asilo), 1990
La massima parte di ciò che veramente mi serve sapere su come vivere, cosa fare e in che modo comportarmi l’ho imparata all’asilo. La saggezza non si trova al vertice della montagna degli studi superiori, bensì nei castelli di sabbia del giardino dell’infanzia. Queste sono le cose che ho appreso:
Dividere tutto con gli altri.
Giocare correttamente.
Non fare male alla gente.
Rimettere le cose al posto.
Sistemare il disordine.
Non prendere ciò che non è mio.
Dire che mi dispiace quando faccio del male a qualcuno.
Lavarmi le mani prima di mangiare.
I biscotti caldi e il latte freddo fanno bene.
Condurre una vita equilibrata: imparare qualcosa, pensare un po’ e disegnare, dipingere, cantare, ballare, suonare e lavorare un tanto al giorno.
Fare un riposino ogni pomeriggio.
Nel mondo, badare al traffico, tenere per mano e stare vicino agli altri.
Essere consapevole del meraviglioso.
Ricordare il seme nel vaso: le radici scendono, la pianta sale e nessuno sa veramente come e perché, ma tutti noi siamo così. I pesci rossi, i criceti, i topolini bianchi e persino il seme nel suo recipiente: tutti muoiono e noi pure.
Non dimenticare, infine, la prima parola che ho imparato, la più importante di tutte: GUARDARE.
Tutto quello che mi serve sapere sta lì, da qualche parte: le regole Auree, l’amore, l’igiene alimentare, l’ecologia, la politica e il vivere assennatamente.
Basta scegliere uno qualsiasi tra questi precetti, elaborarlo in termini adulti e sofisticati e applicarlo alla famiglia, al lavoro, al governo, o al mondo in generale, e si dimostrerà vero, chiaro e incrollabile.
Pensate a come il mondo sarebbe migliore se noi tutti, l’intera umanità prendessimo latte e biscotti ogni pomeriggio alle tre e ci mettessimo poi sotto le coperte per un pisolino, o se tutti i governi si attenessero al principio basilare di rimettere ogni cosa dove l’hanno trovata e di ripulire il proprio disordine.
Rimane sempre vero, a qualsiasi età, che quando si esce nel mondo è meglio tenersi per mano e rimanere uniti.
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L’autoefficacia è la percezione che abbiamo di essere capaci di fare o diventare qualcosa. L’autoefficacia non è una percezione stabile, ma si modifica continuamente. Ci sono cinque fattori che la influenzano:
l’esperienza, ovvero tutti i tentativi che abbiamo concluso con successo in passato;
l’esperienza vicaria, ovvero i tentativi compiuti dalle persone che avevamo vicino;
la persuasione sociale fornita da modelli come genitori e insegnanti;
lo stato fisiologico e quello affettivo (le emozioni giocano un ruolo importante nella costruzione dell’autoefficacia);
leesperienze immaginative; immaginare ripetutamente un’azione migliora la capacità di compiere quell’azione.
Alcuni studiosi hanno proposto un parallelismo con l’autostima, sostenendo che l’autostima sia la percezione relativa a ciò che si è (l’essere), mentre l’autoefficacia sarebbe la percezione relativa a ciò che sappiamo e sappiamo fare (fare e sapere). Secondo questo approccio autostima e autoefficacia sono due percezioni complementari, che si sommano per produrre il giudizio di sé.
Albert Bandura, lo psicologo che ha descritto per la prima volta l’autoefficacia, ritiene che sia un elemento cruciale nell’esperienza scolastica: una didattica personalizzata e capace di evitare i confronti tra studenti legati alle performance, permette agli studenti di formarsi un’immagine delle proprie competenze migliore.
Anche l’apprendimento cooperativo, grazie alla capacità di attivare l’esperienza vicaria, si rivela uno strumento ottimale per incrementare la percezione di autoefficacia.
FONTI
Bandura A., “Self-efficacy,” in Encyclopedia of Human Behavior, V. S. Ramchaudran, Ed., vol. 4, pp. 71–81, Academic Press, New York, NY, USA, 1994
Bandura A., Self-Efficacy: The Exercise of Control, WH Freeman, New York, NY, USA, 1997
Bandura A., Autoefficacia: teoria e applicazioni (1997, ed. it. 2000b) , Erickson
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