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Per far leggere i ragazzi occorrono genitori-lettori

È vero che i nostri ragazzi dovrebbero leggere di più? Secondo i dati Istat, sono proprio i ragazzi – superati unicamente dagli anziani – i lettori forti del paese: il 12,7% dei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni legge almeno un libro al mese, mentre la percentuale di lettori tra i loro genitori (fascia di età 25-55 anni) cala drasticamente.

Ereditarietà della lettura
L’abitudine alla lettura è un fattore ereditario: l’80% dei ragazzi che provengono da una famiglia in cui madre e padre sono lettori forti (coloro che leggono almeno un libro al mese) diventano lettori a loro volta.
Tra coloro che crescono in una famiglia in cui mamma e papà non leggono, invece, solo il 36% si dedica alla lettura. La metà (con una certa dose di semplificazione statistica).
A prima vista, si potrebbe liquidare la questione sostenendo che giovani e anziani leggono perché hanno tempo libero, che manca a chi lavora. Però, è proprio nella fascia di età tra i 25 e i 55 anni che troviamo coloro che trascorrono più tempo sui social network; non è il tempo a mancare, ma l’intenzione. La “vecchia scuola” non è stata capace di educare al piacere della lettura e dell’esercizio del pensiero critico. Critichiamo il sistema attuale, ma i suoi precedenti non erano certo migliori. I benefici della scuola tradizionale andrebbero circoscritti all’aura di disciplina e compostezza, quella sì.
Tuttavia, si tratta di una disciplina illusoria: i genitori di oggi, non appena si sono liberati di quella scuola e di quel rigore, si sono guardati bene – o almeno la maggior parte di loro – dalla lettura, dalla cultura e dall’impegno intellettuale. La disciplina, al contrario, è uno stato mentale di profondo coinvolgimento, di attività e di raggiungimento degli obiettivi. Un buon esempio di disciplina applicata? Sono proprio i lettori.

Rieducare gli adulti alla lettura
I dati che abbiamo discusso ci offrono due punti di vista: il primo è quello centrato sui ragazzi. Se la percentuale di ragazzi lettori è consistente, parte del merito va attribuito alle politiche di educazione alla lettura che – pur se insufficienti – ci sono.
Il secondo è quello centrato sui genitori. Se, come abbiamo visto, è possibile attribuire alla lettura i caratteri dell’ereditarietà, perché non lanciare una grande campagna di rieducazione alla lettura rivolta agli adulti e, in particolare, ai genitori? I risultati sarebbero doppi, a cascata: trasformando mamma e papà in lettori, si produrrebbe un effetto consistente anche sui ragazzi.

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A Cesena la scuola senza voti

Una scuola senza voti è possibile. Nel numero 48 de “I quaderni della ricerca”, dal titolo “Una scuola senza voto” (Loescher, 2019), sarà presentata la sperimentazione del Liceo Monti di Cesena, che ha condotto il progetto “senza voti” tra il 2016 e il 2017. I professori, in collaborazione con gli esperti della Facoltà di Psicologia dell’Università di Bologna, hanno sostituito i tradizionali voti in decimi con un metodo alternativo.

Due anni fa, Simone Romagnoli, professore a contratto dell’università e co-autore del quaderno della ricerca, due anni fa aveva sottolineato: “Il progetto mira non semplicemente a un ‘insegnare concetti’ ma desidera far acquisire un metodo per apprendere. Per formare ragazzi che sappiano intraprendere con più responsabilità il percorso di crescita che li porterà ad essere i cittadini adulti di domani“.

E se da un lato l’acquisizione di un metodo e l’allenamento del pensiero critico costituiscono un sentiero in salita, va sottolineato che non sempre i voti sono lo strumento migliore per educare alla fatica e agli obiettivi.
Purtroppo, per molti studenti e per le loro famiglie il voto diventa un giudizio personale, un numero che distoglie dal benessere e dal piacere della scoperta e dell’apprendimento. Il voto diventa un fattore d’ansia e di sentimenti negativi.

La sperimentazione ha messo alla prova docenti e ricercatori: si è trattato di una sfida vera e propria, con l’obiettivo di incrementare il benessere in aula senza rinunciare alla qualità dei saperi e ai risultati accademici. La partita della scuola, infatti, non si giocherà sulla possibilità di sostituire il benessere ai saperi, ma sull’accostamento di performance e benessere. I risultati, infatti, contano (a patto che non sia la salute, fisica e psicologica, il prezzo da pagare per raggiungerli).

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I libri non servono per sapere, ma per pensare

“I libri vanno aperti, sfogliati, dissolti nella loro presunta unità, per offrirli a quella domanda che non chiede “che cosa dice il libro?”, ma “a che cosa fa pensare questo libro?” I libri non servono per sapere ma per pensare, e pensare significa sottrarsi all’adesione acritica per aprirsi alla domanda, significa interrogare le cose al di là del loro significato abituale reso stabile dalla pigrizia dell’abitudine; è evitare che i testi divengano testi sacri per coscienze beate che, rinunciando al rischio dell’interrogazione, confondono la sincerità dell’adesione con la profondità del sonno“.
Umberto Galimberti

Come sottolinea Galimberti, il sapere è un mezzo per raggiungere un fine più alto: l’esercizio del pensiero. Solo attraverso il pensiero possiamo diventare autenticamente sapienti. La tecnologia ha reso il sapere accessibile a tutti, in qualunque luogo e in qualsiasi momento; tuttavia, questo sapere è freddo e sterile se non è mosso dal pensiero. Oggi più che mai ci serve educare al pensiero prima che educare al sapere.

Queste riflessioni si possono trasferire anche alla nostra scuola e alla famiglia: il proliferare delle tecnologie non deve diventare l’occasione per dimenticare il pensiero, cullandoci nell’illusione del sapere (in realtà, come aveva già compreso Platone, la tecnologia non dà la sapienza né la memoria, ma solo l’illusione della conoscenza). Al contrario: i dispositivi tecnologici, con il loro potere sconfinato, dovrebbero trasformarci in sentinelle del pensiero – critico – e di una cultura incentrata su di esso.

FONTI

  • Umberto Galimberti, Il gioco delle opinioni, Feltrinelli, 1989

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Così l’emergenza ambientale ha trasformato i nostri bambini

Invece di giocare a pallone, a beach volley o di costruire i castelli di sabbia, la piccola Gaia, 9 anni, pulisce le spiagge e i marciapiedi di Ischia. Il suo sforzo ha catturato l’attenzione dei responsabili dell’area marina protetta, che hanno conferito a lei e alla sua amichetta un attestato di merito.
Storie come quella di Gaia – riportata dalla sezione locale di Repubblica – sono sempre più frequenti, sulle pagine dei media come nella nostra esperienza personale. Durante le nostre vacanze al mare abbiamo buttato decine di rifiuti di plastica, su ferma indicazione dei bambini.

L’emergenza ambientale ci sta trasformando
I bambini dovrebbero giocare, ridere e scherzare. Fare i bambini, insomma. Almeno nell’immaginario comune: infatti, parlando con loro possiamo scoprire che un buon numero preferisce impegnarsi per difendere l’ambiente. E così, al posto di giocare tra le onde del mare, si cercano i rifiuti per buttarli. È evidente che l’emergenza ambientale in atto sta trasformando i nostri bambini e le nostre famiglie (sempre più impegnate nell’adozione di stili di vita eco-sostenibili).
I cambiamenti in atto presentano rischi e opportunità: da un lato, l’ansia di vivere in un mondo che sta esaurendo le sue risorse e che potrebbe trasformarsi radicalmente, ansia ed incertezza alimentate dai media. Questo potrebbe riflettersi sul benessere dei più piccoli, suscitando preoccupazioni eccessive. D’altra parte, i valori legati alla tutela ambientale offrono una grande motivazione ad agire e ad impegnarsi, a stringere relazioni sociali significative, a studiare e a porsi degli obiettivi. La necessità di salvare il nostro pianeta può trasformarsi, da fonte di preoccupazione, in un obiettivo capace di produrre benessere e di dare significato alle vite dei bambini e dei loro genitori.

La necessità di sviluppare un’abito mentale ottimistico
Il rischio più grande è il nichilismo: per i giovani, pressati dai dati allarmanti sull’ambiente, è facile arrendersi al pensiero di non poter far nulla, all’impotenza. Si tratta di una deriva pericolosa, per le sue conseguenze: disinteresse a abbandono scolastico, apatia, abuso tecnologico e di sostanze.
La soluzione c’è già, ed è l’educazione all’ottimismo. L’ottimismo non è un dono, ma un vero e proprio stile di pensiero, che si può apprendere e rafforzare. Promuoverlo nei bambini e nei ragazzi significa dotarli dell’antidoto necessario per affrontare la vita con speranza, con entusiasmo e col desiderio di fare la differenza.

FONTI

  • Ann V. Sanson, Susie E. L. Burke & Judith Van Hoorn (2018) Climate Change: Implications for Parents and Parenting, Parenting, 18:3, 200-217, DOI: 10.1080/15295192.2018.1465307

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Linguaggio positivo: le parole che scegliamo contano

Cos’è il linguaggio positivo? Potremmo definirlo come un sottoinsieme linguistico che comprende i concetti, le parole e i costrutti tipici della psicologia positiva. Il linguaggio positivo si concentra sull’individuazione dei punti di forza, sulla resilienza e sull’autoefficacia, sulla ricerca di soluzioni positive e costruttive ai problemi, sull’introspezione e sul riconoscimento dei propri stati emotivi.

Linguaggio positivo: un esercizio 
Un esercizio che tutti noi possiamo sperimentare nelle nostre vite è la “trasformazione del no”. Ciascuna e ciascuno di noi, con i bambini, tende ad usare in modo eccessivo la parola no. Non fare quello, non andare da quella parte, non disturbare, non, non, non…
Esiste un gran numero di casi in cui abbiamo l’esigenza di modificare un comportamento dei bambini: perché è pericoloso, perché non è accettabile o semplicemente perché non è il momento giusto per fare così. Non entreremo nel merito dei casi nei quali la correzione è auspicabile e di quelli in cui sarebbe meglio lasciare ai più piccoli la loro libertà (a questo proposito riteniamo illuminante l’esercizio del semaforo del comportamento). Prendiamo per buona l’esigenza di evitare un determinato comportamento.
Il nostro esercizio consisterà nell’individuare una frase, priva di no, per raggiungere lo stesso obiettivo.

Invece di dire “Non fare rumore” potremmo dire “Facciamo il gioco del silenzio”.
Invece di dire “Non toccare” potremmo dire “Fermiamoci ad osservare”.
E così via.
L’importante è passare da una frase contenente un non ad una frase positiva.

Funzionerà nel 100% dei casi? No. Nemmeno i divieti funzionano sempre; anzi, di solito l’efficacia del no è piuttosto limitata. Tuttavia, è un’alternativa costruttiva – specialmente dal punto di vista dei bambini – per affrontare la vita. Si tratta di un modo di interagire più rispettoso del bambino e dei suoi limiti, orientato verso uno stile di pensiero positivo.
Evitare il no presenta un ulteriore vantaggio: i nostri bambini sentono così tanti no durante le loro giornate che attribuiscono loro un valore molto limitato. Se impariamo ad interagire in modo positivo con i bambini, potremmo utilizzare il divieto solo nei casi in cui è davvero importante (ad esempio, tutte le occasioni in cui i bambini corrono un pericolo reale).
Questo esercizio è tutt’altro che semplice: richiede un allenamento costante e tanto impegno. Tuttavia, è uno dei mattoncini sui quali edificare l’educazione al rispetto, l’alternativa educativa di cui il mondo ha bisogno.

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In Mozambico niente più spose bambine: la legge vieta il matrimonio precoce

Il Mozambico ha vietato per legge i matrimoni precoci: a partire dal 15 luglio, il matrimonio sarà possibile solo a partire dai 18 anni. Si tratta di una vittoria storica per la tutela dei diritti dei bambini nel mondo.

In Mozambico, attualmente, il 48% dei matrimoni sono precoci: prima dell’entrata in vigore di questa legge, le ragazze si potevano sposare a partire dai 16 anni di età. Tuttavia, non era prevista alcuna pena per chi sposava ragazze e bambine al di sotto di questa soglia di età, con il consenso dei genitori. Il paese, si trovava al nono posto nella triste classifica dei paesi con il più alto numero di matrimoni precoci. Adesso, invece, chi infrangerà la legge rischierà fino a 12 anni di carcere, fino ad 8 i funzionari pubblici che celebreranno il matrimonio e fino a 2 anni tutti coloro che prenderanno parte nella sua organizzazione.
La strada è in salita: l’obiettivo è quello, entro il 2020, di ridurre al 40% il numero di matrimoni precoci. Sarà necessario far conoscere questa legge alla popolazione, che è frammentata dal punto di vista geografico, linguistico e amministrativo. Accanto alla legge, è necessaria un’operazione culturale tutt’altro che semplice.
Si tratta però di un segnale importante, se consideriamo che questo fenomeno negli ultimi anni, invece di diminuire, è aumentato: se non invertiamo la rotta, entro il 2050 ci saranno oltre un miliardo di spose bambine nel mondo (la metà delle quali nei paesi dell’Africa sub-sahariana).

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